Scuola di italiano in dad con la Ruah: una sfida vinta

Si può far scuola nonostante il Covid, si può far buona scuola nonostante la Dad o proprio grazie a essa. Di ciò, ne è convinta Elisabetta Aloisi, responsabile della scuola di italiano «Ataya» (cooperativa Ruah), che, dal 1991, accoglie, ogni anno, più di mille studenti (provenienti da tutto il mondo), offrendo corsi di italiano 12 mesi all’anno. Una certezza che si basa sull’esperienza degli ultimi mesi, quando, a causa della pandemia, anche la didattica per stranieri ha subito un profondo cambiamento. «Nel momento in cui la scuola ha dovuto chiudere ci siamo fatti prendere un po’ dal panico – racconta Elisabetta Aloisi –. All’inizio, fra l’altro, pensavamo sarebbe stata una parentesi a breve termine. Quando però abbiamo capito che la chiusura sarebbe durata a lungo, ci siamo rimboccati le maniche e, con i 13 insegnanti della scuola, abbiamo subito organizzato una riunione in streaming». Parola d’ordine: farsi sentire. «Innanzitutto, attraverso messaggi informali via WhatsApp, abbiamo avvisato gli studenti della sospensione delle lezioni dal vivo – spiega Aloisi –, poi ci siamo detti che anche gli allievi dovevano essere informati di più e meglio.

Abbiamo quindi raccolto materiale bilingue per spiegar loro che cosa stava succedendo nel mondo e per riscrivere, in modo semplice e pratico, il regolamento dei Dpcm. Infine, con entusiasmo, abbiamo deciso di procedere con la didattica a distanza». Gli insegnanti, a marzo 2020, creano tre video, in cui rassicurano gli studenti, spiegando loro la nuova modalità di insegnamento, ma non è facile, anche perché si parla di circa 400 persone. «Attraverso la creazione di gruppi WhatsApp, abbiamo cercato di prendere contatto, in modo sistematico, con i nostri allievi – spiega Aloisi –, ma non è stato semplice. Di alcuni, non avevamo nemmeno il numero di telefono e ci siamo dovuti appoggiare sul passaparola. Tramite Meet, abbiamo poi riaperto la scuola a distanza. La riorganizzazione è stata totale, quasi una sorta di riconversione. I test di ingresso venivano effettuati tramite moduli Google o videoconferenze, mentre, ogni settimana, aggiornavamo le cartelle in drive, in modo che insegnanti e volontari potessero scambiarsi idee e materiali. Da marzo a inizio giugno, siamo riusciti a ricostruire virtualmente tutte le classi. È stato un lavoro faticoso ma ce l’abbiamo fatta».

Una soddisfazione che, però, ha rivelato un’amara verità. «Al di là della logistica, se così la si può chiamare, le problematiche maggiori sono emerse quando abbiamo dovuto far fronte all’analfabetismo digitale dei discenti – afferma Aloisi –. Penso ai giga che finivano da un momento all’altro, ai cellulari vecchi e desueti che possedevano, alla fatica nel far comprendere loro saperi che, per esempio, per i preadolescenti italiani sono già assodati. Abbiamo impiegato un sacco di tempo a fare tutorial e a far scaricare loro le applicazioni necessarie. Ovviamente, tutto ciò ci ha restituito una profonda consapevolezza: se la nostra è una scuola per migranti, volta alla cittadinanza attiva, non possiamo escludere l’educazione digitale dal nostro programma. Un’educazione che deve essere istruzione pratica per gli studenti, ma anche aggiornamento continuo per gli insegnanti e i volontari. Del resto, mai avevamo fatto corsi a distanza e, nonostante avessimo la consapevolezza che la tecnologia (e la sua padronanza) fosse importante, mai avremmo pensato che fosse così fondamentale per la nostra società.

Dalle dinamiche di segreteria a quelle formative, eravamo abituati esclusivamente alla presenza. Bisogna ammetterlo: non eravamo preparati. Ben vengano penna e carta, ma, da adesso, dovremo puntare molto anche sul digitale e su corsi di informatica generale per la vita quotidiana». Ma anche la didattica a distanza implica dei limiti. «Si sa, con la Dad non è sempre tutto rosa e fiori – dice Aloisi –. A volte, non va l’audio, a volte non funziona la telecamera. Causa distanza, non si ha bene la percezione della persona, non la si vede benissimo e non si può capire se ti stia seguendo o meno. La paura del fallimento c’è e ci sarà, ma è possibile mantenere comunque una lezione di qualità. Meet ti permette di lavorare in gruppo, di dare spazio allo studente, di utilizzare Maps, di gestire foto e video». Secondo Aloisi, quindi, la Dad, nonostante le intrinseche difficoltà, può essere un’opportunità: «Ho visto volontari di 70 anni, che non avevano nemmeno WhatsApp, aggiornarsi e sentirsi dire grazie dai propri studenti. Gli alunni, nonostante non vedano l’ora di tornare a fare scuola in presenza, sono entusiasti di questa nuova modalità e coloro che, spesso, erano in ritardo a causa del loro abitare lontano, ora si mostrano sempre presenti e puntuali.

Non dimentichiamo, inoltre, come tener in vita la scuola vuol dire riempire un vuoto difficile da colmare. Penso ai tanti immigrati che hanno perso il lavoro e che, grazie alla Dad, hanno potuto riempire il tempo libero in modo funzionale e significativo. È come se la didattica fosse andata incontro agli allievi, accorciando le distanze fisiche e lenendo le paure. La didattica, entrando nelle loro case, ha saputo restituirci una parte della loro intimità. Gli studenti, attraverso la Dad, sono stati infatti più propensi a parlare di loro stessi, della loro famiglia e del loro vissuto quotidiano. Dalle loro narrazioni ne è nata una raccolta di racconti pubblicata dal Concorso letterario “Lingua Madre” di Torino». C’è ancora molto da fare, tanto per cui perfezionarsi e migliorare, ma la certezza di aver raggiunto un grande risultato è palpabile. «All’inizio è stato uno shock, ma ce l’abbiamo fatta – spiega Aloisi –. Non mi nascondo dietro a un dito, la presenza mi manca e manca a tutti. Ma a coloro che continuano a ripetere che la didattica a distanza non si può fare o, peggio, che è inutile, domando: “Cosa facciamo? Stiamo fermi due anni, allora?”. Io dico sia meglio darsi da fare, non fermarsi o arretrare e ingegnarsi a trovare una soluzione. Una soluzione che possa dare la parola allo studente, che spinga alla condivisione e al confronto reciproco. Un messaggio che voglio inoltrare anche a chi insegna. Perché i docenti che riescono a confrontarsi e a supportarsi a vicenda diventano bombe di empatia e creatività. E, in un momento come quello che stiamo attraversando, questo può aiutarci ancor più a trovar nuovi modi di insegnamento, a riflettere e a sperare».