La tratta ai tempi della pandemia: «Chiuse in casa, senza aiuto»

Foto di Giovanni Diffidenti

«Non c’è da mangiare, non c’è da lavorare. Non riesco a pagare le bollette, quasi mi tagliano luce e metano. Soffriamo in casa, è una cosa difficile da vivere. Come stare in carcere». A parlare è Anna (nome di fantasia): abita in bergamasca ed è una degli invisibili su cui la mannaia della pandemia e delle misure di contenimento è calata con particolare forza. La sua storia è comune a quasi tutte le vittime di sfruttamento a fini sessuali, prima costrette a praticare la prostituzione sulle strade bergamasche e poi, con l’esplosione della pandemia, chiuse in casa, senza possibilità di uscire, lavorare e quindi mangiare, ma anche senza la possibilità di chiedere aiuto e incontrare gli operatori delle associazioni e delle realtà attive nel contrasto alla tratta per prostituzione. Come la Melarancia, realtà bergamasca le cui unità di strada lavorano a supporto delle persone vittime di sfruttamento e che durante il primo lockdown si è trovata a fornire primissima assistenza di base a persone che di fatto erano diventate ancora più invisibili di prima: dimenticate, e con esse dimenticato il loro dramma quotidiano, nascosto dietro quattro mura.

«Una delle cose più difficili in generale, e resa ancora più ardua dallo scoppio della pandemia, è portare a galla questi temi», spiega Marzia Gotti, coordinatrice della Melarancia. «Già in tempi normali, la tratta a fini di sfruttamento sessuale è un tema spinoso: è un tipo di marginalità che resta sempre invisibile, di cui si parla poco. Da marzo 2020, queste persone sono letteralmente scomparse: senza cibo, senza servizi. Noi come associazione abbiamo fornito loro materiale sanitario ma soprattutto cibo: la maggior parte si prostituisce per mangiare, e non potendolo fare, si è trovata a soffrire la fame».

«Il virus ci ha tolto tutto»

Anna è una delle persone a cui abbiamo chiesto, con il tramite degli operatori della Melarancia, come la sua vita fosse cambiata con l’avvento del Covid e quali impatti avessero avuto le misure di contenimento della pandemia. «Si sta male, ci si sente in carcere», spiega. «Questa situazione ha portato depressione, stress, ansia… Attacchi di panico. È difficile».

Ciò che accomuna tutte le testimonianze è la difficoltà umana: solitudine, senso di abbandono, mancanza di contatti. Ma anche, in primo luogo, la fame. «Il Covid ha cambiato tutto. Niente soldi significa non mangiare. Meno male che c’è qualcuno che ci aiuta…», racconta Lara (nome di fantasia). «Ci siamo trovate senza lavoro, a casa, senza cibo e senza poter vedere nessuno… Il virus ci ha tolto tutto. Spero finisca presto, sto malissimo». Lara non è l’unica a essere riuscita a tirare avanti grazie all’aiuto di amici o delle realtà territoriali impegnate nel supporto alle marginalità anche nei peggiori momenti della pandemia. «Sarebbe stato difficile, difficilissimo sopravvivere senza l’aiuto di chi ci ha portato almeno da mangiare, come l’associazione», spiega Ambra (nome di fantasia). «Serve tanta forza di volontà per tirare avanti. Spesso penso di tornare al mio paese, perché vivere qui è diventato quasi impossibile… Siamo arrivati al punto che non si riesce più a vivere. Non riesco a immaginare come facciano le famiglie, famiglie con figli che magari erano state bene fino a poco fa, e ora invece…».

Vittime e tratta in bergamasca

«Il fenomeno dello sfruttamento e della tratta sul territorio bergamasco è cambiato nel corso degli anni», spiega suor Pilar di Kairos, onlus che da oltre vent’anni si occupa di marginalità in bergamasca e da diciassette nello specifico di donne vittime di tratta. «Negli ultimi anni è aumentato drasticamente il numero di donne africane sulla strada, soprattutto nigeriane. La componente africana è cresciuta rispetto a quella ad esempio dall’est Europa, acquisendo caratteristiche diverse: per le ragazze africane, che spesso arrivano in Italia giovanissime, è più difficile uscire dal giro, emanciparsi, chiudere i debiti con i propri aguzzini. Vivono situazioni di sfruttamento che partono già in patria e sono vittime di una rete di traffico ramificata, dal paese d’origine fino alla traversata del deserto, alla permanenza in Libia, all’imbarco per l’Italia per arrivare infine al loro “contatto” qui, solitamente una donna che ne gestisce il “lavoro”. Anche quando riescono a lasciare la strada, a fronte di una richiesta di aiuto, non si tratta mai di un percorso facile o lineare, perché sono vincolate ai loro trafficanti da una serie di riti che hanno gran presa su di loro, spaventandole e facendo temere per la propria incolumità e per quella dei propri cari. Le ragazze che seguiamo oggi con Kairos sono tutte africane».

La Kairos lavora in rete con Micaela onlus e altre realtà lombarde per quanto riguarda tutto l’iter di pronto intervento, accoglienza e reinserimento socio-lavorativo delle ragazze uscite dal giro della tratta. Per loro l’arrivo del Covid ha significato un brusco stop a tutte le attività: «Noi ci occupiamo di accoglienza residenziale, sia come pronto intervento sia come comunità di lungo percorso e reinserimento», spiega ancora suor Pilar. «Il primo intervento, cioè il primo passaggio dalla strada a un percorso di supporto, dura solitamente due o tre mesi. Quando poi le ragazze passano nelle comunità di prima accoglienza, di solito su un territorio diverso da quello in cui hanno operato, allora si avviano altri percorsi, come la scuola, i tirocini o le borse lavoro. Con il Covid, queste tempistiche si sono ovviamente dilatate a dismisura, abbiamo dovuto trattenere le ragazze più tempo di quanto avessero previsto e queste restrizioni sono state accettate a fatica, pur se erano per la loro stessa tutela. Se non altro, però, loro avevano un tetto e da mangiare». Diverso invece è stato il caso di quelle persone ancora all’interno del giro: «Durante i momenti peggiori del primo lockdown, abbiamo saputo dalle associazioni partner attive in strada che alcune ragazze rischiavano pur di lavorare. Ma erano poche, la maggior parte era sparita. Ma sparita dove? Ebbene lo sfruttamento è proseguito, all’interno però delle mura domestiche, dove la maggior parte di queste donne ha dovuto continuare a esercitare la prostituzione su pressione dei gruppi criminali che gestiscono la tratta. Erano abbandonate a loro stesse. Per loro è stato molto più difficile esercitare in casa invece che su strada, perché subentrava l’alienazione di una situazione già di per sé provante».

Quasi nessuna di loro, spiega suor Pilar, una volta uscita dal giro torna in patria. Pochissimi i rimpatri, organizzati in collaborazione con una rete di realtà nazionali, ma anche in quei casi le ragazze rientrano in famiglia: troppa la vergogna, il senso di fallimento. È il medesimo motivo per cui nessuna racconta la sua esperienza o getta luce sulla realtà della tratta: «quando chiediamo loro se davvero non sapessero ciò a cui andavano incontro quando sono partite», spiega la religiosa, «ci rispondono che avevano sentito qualcosa, ma non ci avevano creduto. Pensano che in Europa si viva bene. E chi di loro riesce a uscire dal giro, preferisce mostrare di “avercela fatta”, anche se il prezzo pagato è stato altissimo». La vera difficoltà, spiega suo Pilar, è riuscire poi a inserirle nel mondo del lavoro una volta uscite dal giro della tratta: la rete di realtà attive nel sociale con cui Kairos collabora possono offrire solo posti di lavoro poco remunerativi, che rende arduo un vero riscatto. «Il Covid», conclude, «ha reso tutto questo ancora più difficile».

Foto copyright Giovanni Diffidenti