Hikikomori Bergamo: un aiuto ai ragazzi che si isolano dal mondo

“L’alternativa a chiudere il mondo in una stanza è fare del mondo la tua stanza”. È questo l’obiettivo del lavoro dell’equipe Hikikomori Bergamo. Che da una decina d’anni lavora sul difficilissimo terreno del ritiro sociale dei ragazzi. Adolescenti che nel passaggio dalle medie alle superiori, oppure dalla scuola al lavoro, si chiudono nella propria camera e rifiutano ogni contatto con il mondo. I numeri sono sempre più preoccupanti: il dato nazionale parlava cinque anni fa di 100 mila casi, oggi saliti a 200 mila. Una crescita registrata anche a Bergamo: l’equipe si è costituita formalmente sei anni fa e ha cominciato a seguire tre casi; oggi sono una cinquantina. 

Inizia a tracciare il profilo di questi ragazzi lo psicoterapeuta Gianfrancesco Gervasoni, che fa parte dell’equipe Hikikomori Bergamo insieme a Laura Cardini, Marco Bonacina, Demetrio Martorano e a due volontari, di cui uno proviene proprio da una situazione di difficoltà di ritiro sociale.

“Una decina di anni fa abbiamo cominciato ad intercettare dei casi difficili di ragazzi che si chiudevano in camera evitando contatti con i coetanei e le altre persone. Rinunciavano alla scuola, allo sport, agli hobby e spesso stavano sempre attaccati al computer. L’abbiamo vista subito come una sfida: la psicologia tradizionale non riusciva ad intercettare e dare una risposta a queste problematiche, perché deve avere a che fare con un ragazzo che non c’è. Il ragazzo Hikiko, infatti, non riconosce di avere un problema, ha una visione del mondo nichilista, si ritira perché il mondo non corrisponde alle sue aspettative e così si chiude in un baratro. Arriva a comportamenti caratteristici come vivere di notte, nutrirsi in maniera approssimativa, trascurare l’igiene corporea, indossare per settimane la stessa felpa”.

Serve inventare qualcosa di nuovo rispetto al setting dello psicoterapeuta tradizionale. “Chi arriva a portare il problema è in prevalenza la mamma: dovevamo cominciare a lavorare proprio con i genitori per creare dei punti di accesso con il figlio. Si tratta di un lavoro paziente, da commisurare con la libertà del ragazzo. Bisogna fare determinati passi per interagire con il ragazzo ritirato, che ha un’unica preoccupazione: proteggere il suo spazio vitale (la camera) dall’ingerenza del genitore, che ha invece l’intento di schiodarlo, farlo uscire e farlo andare a scuola. Il primo atteggiamento dei genitori è infatti la sollecitazione, la costrizione e questa modalità irrigidisce il ritiro sociale, porta alla disgregazione del rapporto genitore/figlio: il figlio non vede più in maniera credibile il genitore”.

Il fenomeno si verifica tipicamente nel passaggio tra scuole. “Sono ragazzi che nel piccolo mondo delle scuole medie ricevono dei riconoscimenti come i voti e i giudizi positivi dei parenti. Questi cominciano a creare una certa aspettativa, l’aspetto prestazionale diventa pregnante. Andando nel mondo più grande delle superiori, vengono ridimensionati dal confronto con gli altri, non riescono a stare al proprio livello mentale: questo produce una ferita narcisistica che porta al rifiuto di quel mondo proprio perché non lo trovano adeguato”.

Si pone quindi la sfida di inventare strategie nuove per arrivare dove si nasconde il ragazzo. “Abbiamo provato varie modalità, quasi in maniera empirica. Vediamo che possono aiutare quattro punti cardinali dentro cui poi ci muoviamo per capire la specificità della situazione di ogni ragazzo. 

Innanzitutto aiutare i genitori a maturare un nuovo sguardo verso il ragazzo, non solo prestazionale. Spesso sollecitano a far bene le cose, essere puntuali, rispettare i doveri sociali: se vedono delle mancanze, compensano con richieste formali che portano però i ragazzi a chiudersi ancora di più. La sfida è cambiare lo sguardo da ciò che il ragazzo fa a ciò che è e così il clima diventa meno tensivo. 

Il secondo passaggio è sfruttare i frammenti di realtà, quei momenti in cui il ragazzo si apre e c’è interazione con il mondo.

Ancora, serve un riposizionamento all’interno della famiglia. La disposizione relazione classica vede infatti la mamma molto vicina alla problematica, quasi fagocitata, che diventa quasi una badante del ragazzo e per preoccupazione si appiattisce sul problema, mentre il papà è tendenzialmente orientato verso il proprio lavoro, ha una distanza maggiore dal punto di vista relazionale. Noi cerchiamo di invertire questa disposizione, ovvero di spostare la madre e far intervenire il padre e così si sblocca qualcosa.

Infine, si sfrutta la potenza del sistema: per interagire con una persona che non vuole essere aiutata bisogna lavorare sui canali che arrivano a lui: oltre alla famiglia anche la scuola, gli amici, la neuropsichiatria sul territorio. È fondamentale collaborare per arrivare con delle proposte”.

Un percorso lungo e difficile, che richiede pazienza e deve fare i conti con l’impossibilità di valicare la libertà del ragazzo. “Il lavoro dura in media 2/3 anni, ma a volte anche molto di più. A far la differenza è l’aspetto affettivo: bisogna aiutare le famiglie ad avere un approccio affettivo verso i ragazzi, e così deve essere lo psicoterapeuta verso i genitori. Succede che, anche se non abbiamo mai parlato con il figlio, è lui che comincia a fare dei passi avanti, delle aperture”.

Dopo questo lungo lavoro preliminare, spesso si aprono degli spazi di incontro anche fra ragazzo hikiko e psicoterapeuti. “Un progetto interessante che utilizziamo spesso è il gioco di ruolo. Uno dei frammenti di realtà dei ragazzi è infatti la predisposizione al videogioco: con questa modalità si tira fuori qualcosa di sé grazie ad una modalità che risulta appetibile al ragazzo”.

L’uscita dall’isolamento sociale è un’altra fase che richiede un lavoro attento. “Come equipe Hikikomori arriviamo alla riapertura, ma ci siamo resi conto di avere un problema: il ragazzo quando esce ha bisogno di una proposta concreta. Da qui l’idea di confrontarsi con don Fausto Resmini: eravamo andati da lui l’anno scorso, proprio un mese prima della sua scomparsa. Ci ha accolto e io, che lo incontravo allora per la prima volta, ho capito subito che era una persona particolare. Su un foglio volante ha segnato due o tre cose di quello che gli stavamo dicendo: quel bigliettino è andato poi nelle mani di don Dario Acquaroli, che ha raccolto il testimone: don Fausto, infatti, gli ha dato l’incarico di indagare su questa urgenza sociale”.

Da questa collaborazione con la fondazione don Lorenzo Milani (che presto muterà il proprio nome in fondazione don Fausto Resmini) nasce il progetto Ritorno al futuro. “Attraverso le strutture e i laboratori del Patronato di Sorisole c’è la possibilità di inserire i ragazzi in un tirocinio sociale: il ragazzo può scegliere quanto e dove andare a lavorare (in falegname, serigrafia, fattoria o negli altri laboratori). Sceglie liberamente ma poi deve dimostrarsi fedele. In questo modo comincia a guadagnare qualcosa ed acquisire competenze che erano assopite”.

Un passo importante verso uno ancora più grande. “Il passaggio successivo consiste nel trovare un posto di lavoro vero e proprio. È un percorso verso l’autorealizzazione. Si passa da Sorisole perché altrimenti il gradino risultava troppo grande e il ragazzo rischiava di chiudersi nuovamente”.

Così anche le strade verso nuove gemmazioni nelle vite di questi ragazzi feriti passano da quella comunità nata e cresciuta nelle mani di don Fausto. Che continua a generare vita anche adesso che lui la protegge dal cielo.