Dopo il Covid: ripartire dal cantiere dell’educare

Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa il latte
dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.

Cosi Wislawa Szymborska, poetessa polacca premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996, commenta da par suo una delle opere più belle di Jan Vermeer: La Lattaia, un dipinto a olio oggi visibile al Rijksmuseum di Amsterdam. Con grande maestria, il pittore olandese del XVII secolo cattura e fissa su tela il gesto semplice e quotidiano di una donna: il latte che dalla brocca viene versato nella scodella. Un atto ordinario, ripetuto chissà quante volte, che il pittore riesce a trasformare in un momento solenne. Grazie alla luce che nel quadro entra dal vetro rotto della finestra la dimensione consueta e ordinaria del gesto assume un valore, insieme, di profonda umanità e sacralità. E come l’impegno quotidiano, spesso nascosto, di chi cerca di mettere il proprio tassello nel complesso “cantiere dell’educare”.

Occorre avere dentro di sé molto caos per generare una stella che danza”. Diciamoci la verità: questo frammento di Nietzsche può stare come mezuzah sugli stipiti delle porte di molti genitori del nostro tempo, impresso dentro le fatiche di educatori che, con difficoltà ma con tenacia e coraggio, tentano di decifrare il presente senza farsi prendere dalla rinuncia o dal risentimento. Ciò che è certo è che stiamo attraversando una lunga transizione, caratterizzata dall’incertezza e dalla provvisorietà: quello che sembra mancare è un progetto chiaro verso il futuro. Siamo immersi in una storia segnata dalla fine delle grandi narrazioni unitarie e dal venir meno di un orizzonte condiviso di valori e di certezze. Siamo passati dall’uni-verso al pluri-verso, in cui pluralismo, interdipendenza, soggettività, relatività delle visioni del mondo e delle proposte culturali diventano forma evidente della complessità. Da qui l’esigenza di ricostruire mappe di significato e di senso, la ricerca di un “centro di gravità”, di radici, di uno spazio dove incontrarsi e riconoscersi. Il cambiamento può mettere in crisi, scomodare, costringere a modificare sguardi, punti di vista e prospettive, cercare forme nuove e diverse di relazione: uno sforzo necessario, se si vuole percorrere il cammino di questo nostro tempo. Anche il sistema delle relazioni tra generazioni si è andato via via modificando. In questa società, dove il patrimonio di valori sembra evaporato, è certamente in crisi il modello della trasmissione, che garantiva il riferimento ad una tradizione consolidata, come “deposito” da consegnare intatto alle nuove generazioni.
La “frattura” tra generazioni rende evidente il disagio di tanti nell’iniziare i ragazzi e i giovani ai significati profondi dell’esistenza. Lo testimoniano tanti genitori: la cultura trasmessa ai figli è in crisi sui significati, i significati che sono alla radice del vivere, quelli insiti nelle esperienze fondanti della vita: il nascere, il costruire relazioni, l’incontro uomo-donna, il generare/dare la vita, la malattia, il morire. Il senso e il percorrere tutte queste esperienze paiono diventate una faccenda totalmente privata. Esperienze che ognuno sente e vive in modo personale. E spesso non sa come raccontarle.

Lo abbiamo sperimentato in questi lunghi mesi che abbiamo alle spalle: un evento come la pandemia ha rotto memorie, immaginazioni e consuetudini, stravolgendo stelle polari e assetti pedagogici. Silenziosamente si è fatta breccia la convinzione che curare e accudire sia diventato difficile. I luoghi formativi per eccellenza come la scuola e la famiglia hanno conosciuto vuoti, dinamiche e tensioni inedite. La scia lunga della didattica a distanza e dello smart working lascia dietro di sé tanti interrogativi da affrontare e su cui continuamente ritornare. Più spazi incustoditi, meno relazioni dal vivo, deformazioni del tempo, riformulazioni/e degli spazi. Se da una parte emerge il desiderio di riconfigurare la realtà, dall’altra occorre forse lasciare che lo smarrimento completi il suo lavoro: sgretoli le false certezze e gli schemi rachitici di modelli preconfezionati. Quello dei giovani è un mondo che vive una tensione che non si può confrontare con un modello precedente e non sa come “distenderla”. Ed è a rischio di ripiegamento: si percepisce senza riparo, in molte sue frange. Attende futuro, attende invio, attende spazio: questa gioventù va chiamata con forza a giocarsi per la libertà, per la novità, per la responsabilità. Quello degli adulti è un universo in crisi, strapazzato tra quesiti ed incognite pesanti, risultati fallimentari, lusinghe giovaniliste, desiderio di ricostruzione e di maggiore tranquillità. Non possiamo nascondere che c’è una fatica da parte dell’adulto a comprendere il cambiamento e a viverlo. L’educatore porta dentro di sé le fatiche del tempo: ferite da rimarginare, affettività negate, ombre nascoste nell’anima, territori ancora inesplorati o non pacificati, paure del domani. Ma appare con analoga evidenza che è possibile educare solo se si ha un atteggiamento di fiducia verso il futuro e se si è capaci di interpretare il presente come tempo favorevole per la trasformazione dell’uomo e del mondo, se si ha speranza. Parafrasando Szymborska, “finché quegli uomini e quelle donne giorno dopo giorno sanno prendersi cura con fiducia dell’altro, il mondo non merita la fine del mondo”. Proprio come la nostra Italia anche il panorama educativo sembra dunque essere un cantiere più che mai aperto. Dobbiamo essere consapevoli che, “c’e bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perche tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana”, come scrive Papa Francesco nella Fratelli tutti

Lo aveva ben capito don Lorenzo Milani, un uomo che ha giocato l’intera vita a servizio dei ragazzi: “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perche io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola”. 

Che il segreto stia in questo?