Apeirogon. Dare voce al dolore dell’altro. Un modo diverso per guardare il conflitto israelo-palestinese

Apeirogon. Questo è il titolo dell’ultimo magnifico libro di Colum MacCann, lo scrittore irlandese che vive a New York. Una vicenda ambientata in Israele e Palestina e che racconta la storia autentica di due uomini, Rami Elhanan e  Bassam Aramin, che qualche anno sono stati ospiti delle ACLI di Bergamo. Il primo, Rami, è un ebreo che ha perso  Smadar, la figlia tredicenne saltata in aria a Ben Yehouda con i tre kamikaze che si sono fatti esplodere. Smadar stava andando con le amiche ad acquistare i libri per la scuola e sul walkman ascoltava Sinead O’Connor. Il secondo, Bassam, è un palestinese che ha perso Abir, la figlia di dieci uccisa con un colpo sparato alla testa da un soldato israeliano. Abir era appena uscita da un negozio dove aveva comperato un braccialetto di caramelle e indossava la divisa della scuola, la gonna azzurra e la camicetta bianca. L’autoambulanza che la trasportava a Gerusalemme rimase bloccate per ore ad un checkpoint lungo il confine. E’ morta due giorni dopo all’Hadassah, l’ospedale dove alcuni anni prima era nata Smadar.

L’Apeirogon che dà il titolo al libro è un poligono dal numero infinito di lati. E solo l’infinito misura la complessità e le sfaccettature della spirale di violenza che, a cicli continui, tormenta il Medio Oriente, dove ogni lato ha altre facce e ciascuno la sua. Assumere questa complessità è il primo esercizio per chi cerca di decifrare, in modo non superficiale, quanto avviene in quella terra e per chi desidera una pace che, se non vuole essere ridotta a sentimento sterile e inefficace, non può essere separata dalla giustizia.Servirà dunque fermarsi su molti e intricati aspetti: la pretesa ossimorica e alla lunga impossibile e perdente di uno Stato, quello di Israele, che vuole essere insieme ebraico e democratico; la continua e ostinata costruzione di insediamenti su terreni occupati e non più restituiti dopo la guerra dei Sei giorni; l’irrilevanza progressiva di palestinesi nell’interesse degli Stati, in primis quelli arabi, e nello scacchiere geopolitico; la mancanza, da entrambe le parti, di una leadership e di una politica capace di sguardi lunghi e di scelte coraggiose che ha creato un vuoto riempito sempre più in modo prepotente dall’ideologia religiosa che pretende di offrire risposte semplici a questioni complesse. Eppure continuo a credere che non ci sarà pace ne giustizia finchè entrambi i popoli (ciascuno con molte ragioni e molti torti) non guarderanno al dolore dell’altro. Affacciarsi sul dolore dell’altro non sarà la chiave politica di risoluzione del conflitto ma nessuna scelta futura, se vorrà essere significativa, potrà sottrarsi dal farlo.

Tanti anni fa, mentre guidavo un gruppo di pellegrini della diocesi di Milano ebbi il dono di incontrare il cardinal Martini, da poco ritiratosi a Gerusalemme. Durante il tempo trascorso insieme, mi parlò a lungo di uno dei segni di speranza che gli pareva di percepire in quella terra lacerata (erano gli anni della seconda Intifada): la realtà dei Parent’s Circle, a cui aderiscono sia Rami che Bassam: genitori, ebrei e palestinesi,  che hanno perso un familiare nel confitto. All’associazione hanno finora aderito duecentocinquanta genitori israeliani e duecentoventi genitori palestinesi, oltre a un ristretto gruppo di drusi. Dopo qualche tempo, il cardinal Martini pubblicò un articolo sul Corriere dove riprese molte delle cose che ci aveva detto. Sono passati anni, eppure forse questa è l’unica strada per immaginare, certo non in tempi brevi, un futuro possibile di convivenza.

“Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace. Non fabbricarti idoli: idolo è anche porre se stesso e i propri interessi al disopra di tutto, dimenticando l’altro, le sue sofferenze, i suoi problemi. Il superamento della schiavitù dell’idolo consiste nel mettere l’altro al centro, così da creare quella base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative. Cardinal Carlo Maria Martini