Recalcati racconta Giobbe e lo scandalo del dolore innocente

La proposta di lettura della Biblioteca diocesana del Seminario Giovanni XXIII di Bergamo: “Il grido di Giobbe” di Massimo Recalcati.

In questo saggio Massimo Recalcati, noto psicoanalista lacaniano e scrittore, commenta il libro biblico di Giobbe circa il tema della sofferenza umana, il suo senso e la sua inesorabilità; o meglio, affronta lo scandalo del dolore innocente e, di conseguenza, solleva lo scandalo di una possibile responsabilità di Dio nella presenza del male nel mondo.

Giobbe, uomo giusto e timorato di Dio, conduce una vita piena, realizzata e ricca, materialmente e spiritualmente. Da qui la domanda disincantata di Satana a Dio: non è fin troppo facile, quasi scontato, per Giobbe essere un uomo di fede, visto che la vita è con lui così generosa e benedetta?  La scommessa che Satana ingaggia con Dio conseguente a questa subdola domanda prevede una prova estrema per Giobbe: la perdita di tutti i beni, degli affetti e della salute, relegandolo così ad una vita umiliata, decaduta, di scarto.

La copertina del volume

Quello che più prostra Giobbe però, non è solo né tanto la perdita dei beni, degli affetti e della salute, bensì l’oscurarsi del volto di Dio da padre benevolo a persecutore accanito e sadico, dal quale si sente non solo perseguitato ma anche abbandonato.

Giobbe, pur arrivando a maledire la vita dal suo nascere, inizia quindi, senza smettere mai, a chiamare Dio, non per chiedere la guarigione e la restituzione dei beni e degli affetti perduti, ma per avere risposta alla sua domanda: perché il male innocente? Com’è compatibile l’immagine di Dio con l’esistenza del male radicale? In gioco quindi, come sottolinea Recalcati, non è tanto la tenuta della fede nel momento della prova, né subito il senso della sofferenza umana sorda, eccessiva e priva di senso, ma la responsabilità di Dio nei confronti del dolore innocente. Un’interrogazione profonda questa, iscritta nello stesso significato etimologico del suo nome: dov’è il padre?

Giobbe rifiuta la consolazione dei suoi amici, che osservano il suo dramma a distanza e vorrebbero ricondurre lo scandalo del male al regime del senso applicando il postulato della teologia della retribuzione, confutato però sistematicamente dalla realtà della vita umana. La storia di Giobbe incarna infatti un eccesso del male che nessuna teodicea è in grado di assorbire. Dio sembra sottrarsi, tace, è assente.

Giobbe allora insiste e la sua domanda è talmente disperata e ostinata da assumere la forma acuta del grido rivolto a Dio, capace di esprimere non solo il suo profondo dolore, ma l’invocazione della parola dell’Altro, radicalizzando quindi la domanda di sapere in una domanda di presenza. Il dolore infatti non può essere riassorbito nell’ordine del senso, perché nessuna parola, nessuna teo-logia, è in grado di spiegarne l’eccesso. Il dolore inchioda l’uomo ai propri limiti che sono innanzitutto i limiti del suo stesso sapere.

Alla fine Dio si presenta a Giobbe e l’offerta della sua presenza, che già da sé confuta le tesi degli amici, è di gran lunga più significativa del contenuto delle sue parole. Recalcati sottolinea come la fede che Giobbe ha continuato ad avere in Dio sia quell’unico resto salvifico che rimane, quale esperienza dell’assoluto disarmo e di consegna di sé stessi al mistero dell’Altro.

La potenza di Dio non è la potenza del male, ma quella ontologica della creazione e questa totale sproporzione tra l’uomo e Dio giustifica l’impossibilità dell’uomo di significare le contraddizioni che attraversano il creato.

Non c’è ragione che possa giustificare lo scandalo del dolore che ha investito la sua vita e, tuttavia, la fede in Dio e nella creazione come atto di donazione consentono a Giobbe di non restare prigioniero della propria disperazione e a non rinunciare alla vita a causa del male.

Silvia Piazzalunga

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