Tradizionalisti e progressisti nella Chiesa: un tema sul quale Papa Francesco si è soffermato anche nell’udienza generale di mercoledì 23 giugno e sul quale si potrebbe aprire una riflessione nel prossimo Sinodo.
Il prossimo Sinodo della Chiesa italiana sarà un percorso “diffuso” e non accentrato, secondo le indicazioni di papa Francesco. Non quindi un grande evento al quale partecipino delegati incaricati di presentare proposte o di votare eventuali decisioni da assumere, ma un percorso in stile sinodale che dia ai diversi territori la possibilità di esprimersi e di condividere quelle che vengono percepite come le questioni più urgenti da affrontare insieme.
Provando a mettermi in questa prospettiva, quando sarà il momento di prendere la parola nella mia comunità, porrò tra le questioni importanti sulle quali ritengo la Chiesa dovrebbe riflettere l’evidente presenza, nella Chiesa italiana, di schieramenti che, solitamente, vengono denominati con i termini “ tradizionalisti ” e “progressisti”. Non è difficile accorgersi dell’importanza di queste questioni: non serve conoscere nel dettaglio le reazioni ai documenti di papa Francesco (ad Amoris Laetitia in primis) per rendersi conto che, anche nella nostra diocesi, la questione si pone, creando divisioni e, talvolta, seminando tensioni che rendono difficoltosa la fraternità anche tra i sacerdoti.
Qualche tempo fa, un amico mi ha inoltrato un articolo di un sito tradizionalista, scritto da un fedele della nostra diocesi, nel quale venivo citato, insieme a qualche confratello (peraltro, tutti docenti e studiosi, a differenza mia, curato di oratorio: un onore immeritato!), come uno tra i più pericolosi “progressisti” della diocesi di Bergamo. La mia prima reazione è stata una sonora risata. Poi, pensandoci bene, pur restando sereno, mi sono chiesto perché fossi stato definito così. Infatti, se è certo che non sono un sostenitore delle Messe in latino e di certi abiti ecclesiastici di tempi passati, non mi sembra di essere poi così azzardato in argomentazioni definibili come “progressiste”. Anzi, io credo che “tradizionalismo” e “progressismo” siano, in fondo, due estremi da evitare con cura.
Provo a spiegare i motivi di questa mia affermazione. Il serio problema del cosiddetto “tradizionalismo” è che, in questa prospettiva, la fede non dialoga in alcun modo con la storia degli uomini e delle donne di oggi. Non è infatti una questione di latino o di tricorni, che sono legati a gusti personali sui quali ciascuno è libero di gestirsi come meglio crede, ma di un’impostazione che, cercando le sue sicurezze in modelli di Chiesa e teologie del passato, rifiuta il dialogo con il mondo di oggi, giudicandolo aprioristicamente come negativo e lontano da Dio. Ora, una fede che non si incarna nella vita dell’uomo di oggi si auto-condanna all’irrilevanza, finendo per ridursi a un fatto privato, spesso utilizzato per scagliare giudizi e scomuniche sulle persone, completamente a prescindere da ogni discernimento teologico, pastorale e.. umano! Non credo che rifugiarsi nel passato, cercando di riproporne forme e contenuti, sia una scelta che fa bene alla Chiesa: anzi, vi vedo solo il pericolo di una Chiesa fuori dal mondo, risentita e nostalgica.
Tuttavia, mentre affermo questo, credo che anche la prospettiva definita come “progressista” sia seriamente problematica in quanto, a mio parere, essa non è altro che la mentalità tradizionalista, proposta col segno opposto. Infatti, questa modalità di intendere la Chiesa e la sua missione finisce per configurarsi come una sorta di costante assecondamento delle istanze del mondo di oggi. Questo è grave: quando la Chiesa semplicemente “benedice” ogni novità, a prescindere da un serio discernimento alla luce della Parola e della preghiera, finisce per diventare identica alla società nella quale, per ricevere consensi, si immerge fino a dissolversi completamente in essa. Vedo questo pericolo in tutti quei riferimenti che talvolta mi capita di ascoltare o leggere a riguardo della fede cristiana, che mi pare venga ridotta a una sorta di “religione dell’amore”, nella quale, proprio sulla base di questo indefinito “amore”, tutto sarebbe lecito e starebbe al singolo stabilire cosa sia buono e cosa non lo sia. Insomma , una sorta di “volemose bene” o, se vogliamo, una lettura postmoderna del famoso “ama e fa’ ciò che vuoi” di Agostino. No, anche questa prospettiva decisamente non è buona per la Chiesa.
Non si tratta di esaltare le novità in quanto novità, ma di discernere, con la preghiera, il riferimento alla Parola, l’esegesi, lo studio della teologia, del diritto canonico, delle scienze umane, quale sia la volontà di Dio per l’uomo, oggi. Credo questa sia una questione decisiva, sulla quale, credo, il Sinodo dovrà esporsi.