La spaccatura del M5S. Pro e contro il governo Draghi, un groviglio di contraddizioni

L’implosione/esplosione di un movimento politico come il M5S e di un gruppo di parlamentari, che rappresentano il 33% degli elettori e dei deputati, genera una catena di effetti rilevanti sul governo e sul sistema politico. 

Quanto al governo, la spaccatura del M5S non pare al momento metterne a rischio la base parlamentare. D’altronde, non siamo ancora entrati nell’area del semestre bianco che precede l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, durante il quale le Camere non possono essere sciolte. Una volta entrati nel semestre bianco, però, ai partiti è consentita qualsiasi mattana, compresa quella di far saltare il governo. Che, a quanto sembra, tale appare all’osservatore comune, quando punti l’attenzione sul M5S. Che si sta dividendo in due, come un lombrico, senza che al momento si sia in grado di prevedere le dimensioni dei due – solo? – pezzi. 

Per quanto oggi appare, l’ala che fa capo a Grillo e a Di Maio difende il Governo Draghi, almeno per ora. La consapevolezza di essere un gruppo di scappati di casa che hanno trovato legittimazione e ricovero nelle istituzioni è molto alta, ancorché inconfessata, in Grillo e in tutti i Ministri e sottosegretari grillini. Tuttavia, per coprire “il governismo”, che non gode di nessuna aura escatologica, Grillo si deve produrre in richiami all’antica foresta movimentista, agli eventi fondativi, dai mille “Vaffa Day” alla nuotata maoista nello Stretto di Messina. I salti di carreggiata che nel frattempo sono accaduti, il rovesciamento delle posizioni e delle alleanze, il passare dalla Cina e dalla Russia all’America di Biden, dall’appoggio a gilet gialli accanto a Marine Le Pen all’europeismo più retorico e melenso, tutto ciò sta ormai alle spalle. Certo, anche dentro il Governo Draghi si vuole continuare a segnare qualche punto identitario. Il più importante è certamente quello della prescrizione dei reati, che la riforma Bonafede sospendeva, dopo la sentenza di primo grado. Il risultato: imputati a vita, in base ai tempi infiniti della mala-giustizia. L’ultima miserevole partita identitaria è quella del cash-back. In ogni Paese civile il ricorso ai pagamenti elettronici è diventato simbolo di modernità, efficienza e pagamento delle tasse. Qualche mente bacata del Mef (?) si è inventata l’incentivo: ogni tot operazioni elettroniche, si ha diritto ad un premio. Il costo finale di questa operazione-premio oltrepassa i 4 miliardi di Euro. Draghi lo ha sospeso, si immagina a tempo indeterminato, non solo perché sottrae risorse ben altrimenti utili per la produzione e il lavoro, ma perché è risultato che chi gode di questo premio sono i ceti più abbienti, che già fanno largamente uso dei mezzi elettronici, anche senza l’incentivo. Insomma: piove sul bagnato. 

Altro atteggiamento, invece, è quello di Conte-Travaglio e seguaci. Niente linguaggio rovente, niente mito delle origini. Però con il dente avvelenato con Mario Draghi. Et pour cause! Perché ha posto fine ai due anni dell’età dell’oro, in cui Giuseppe Conte ha fatto il saltimbanco da una maggioranza giallo-verde a una giallo-rossa. Sicché il paradosso è che l’ala governista di Conte del M5s è più ostile a Draghi e l’ala più rivoluzionaria gli è più favorevole. Come e se si assesterà questo groviglio di contraddizioni è presto per dirlo.

Quanto agli effetti sul sistema politico e sulle alleanze future, qui il panorama è più chiaro. Il PD è il Cireneo di questa operazione, al termine della quale finirà, più sfortunato di Gesù, direttamente sulla croce. L’operazione Cinque Stelle è stata avviata da Renzi, all’indomani del Papeete salviniano, in chiave puramente tattica. Poiché l’operazione era stata suggerita da Renzi, Zingaretti era ovviamente contrario. Ma poi, di colpo, ha incominciato a investire sull’alleanza, fino a trasformarla in un asset strategico, così che Conte da Re Travicello di Salvini è diventato “il punto di riferimento fortissimo dei progressisti”. Alle spalle stava l’idea di una nuova unità della sinistra, secondo lo schema classico dalemiano: assorbire la sinistra pentastellata, unire la sinistra storica di Articolo 1 e Leu, separarsi dal centro renziano per poi fare un bel centro-sinistra, doverosamente unito/separato dal trattino, magari con lo stesso Renzi.

Enrico Letta, che pensa in termini di Ulivo – anche lui fuori tempo massimo – e non di centro- sinistra, è diventato più prudente di Zingaretti, nel frattempo auto-licenziatosi in modo rancoroso e indispettito, ma ha continuato a investire sulla leadership di Giuseppe Conte in campo pentastellato. Ora lo scenario che si presenta è del tutto pirandelliano. I sondaggi danno un partito neo-centrista guidato da Conte attorno al 15%, al livello dove già si trova ora il M5S, al netto di ogni scissione. Anche supponendo che il M5S di Grillo scenda al 7% – sempre secondo un sondaggio – dove va Conte a recuperare ciò che gli sottrae Grillo? Dal PD, ovviamente. Che a sua volta scenderebbe al 15%. Il bilancio dell’operazione Zingaretti-Letta è in perdita secca. Fin qui gli insondabili sondaggi. È più sicuro, per ora, che Conte continui a conservare una notorietà personale molto alta, a dimostrazione che la DC dorotea è radicata negli strati profondi del Paese. Dc dorotea: moderatismo verbale, angoli programmatici smussati, clientelismo ed assistenzialismo, legami con settori del Vaticano e della CEI, europeismo provinciale, ceti piccolo-borghesi, dipendenti pubblici, insegnanti… Tuttavia il passaggio dalla notorietà ai voti è incerto. Chiedere per saperne di più a Mario Monti o a Renzi.

Se il PD esce debilitato da questa storia, il centro-destra ne esce, di conseguenza, rafforzato, senza aver mosso un dito. Non è da escludere, per di più, che alcuni frammenti dell’esplosione pentastellata finiscano nel campo del centro-destra. Tutto grasso che cola per Salvini e Meloni.

Occorre aggiungere che tale sconquasso avrà effetti sul passaggio cruciale dell’elezione del Presidente della Repubblica nella primavera 2022. Considerata l’attuale evoluzione della Presidenza della repubblica verso una forma di “presidenzialismo corretto”, la scelta del Presidente diviene l’incrocio decisivo per gli anni a venire. 

A volte una piccola palla di neve scagliata da un ragazzo per gioco può provocare una valanga. Ed è ciò che sta per accadere.