Romena, porto di terra. A proposito di un libro e di una storia

Trent’anni. Sono gli anni che in queste settimane compie la Fraternità di Romena, una delle esperienza spirituali più significative del nostro tempo. “Porto di terra”, così una sera di alcuni anni fa l’ha definita Luciano Violante, allora presidente della Camera. Un luogo di sosta per i tanti viandanti – spesso confusi e smarriti – che cercano una direzione o, più semplicemente, chiavi utili per decifrare il presente e ritrovare un senso che permetta di custodire l’umano. Come gli antichi pellegrini di un tempo che in marcia verso Roma, nell’alta Valle dell’Arno, a cinquanta chilometri da Firenze e da Arezzo, si fermavano alla pieve romanica oggi magnificamente restaurata. Fa pensare che tutto sia nato da una crisi di don Gigi Verdi, il fondatore di Romena. Dopo sette anni di sacerdozio, chiese di andare prima in Bolivia e poi nel deserto. Infine maturò l’idea di chiedere al vescovo di poter vivere accanto alla pieve con l’idea di aiutare chi passa dentro le fatiche. Trasformare cioè la maledizione in benedizione, le ferite e le crisi in qualcosa di utile. Ne sanno qualcosa i moltissimi credenti e non credenti che affollano gli incontri che la Fraternità propone. 
Nei giorni scorsi è uscito un bel testo di Massimo Orlandi – un amico della prima ora di Romena –  che ripercorre l’intera vicenda della Fraternità (Massimo Orlandi, Romena. Porto di terra, San Paolo, pp.220, euro 18) e la rilegge proprio a partire dalle tante fragilità che sono state generative di vita e di speranza. Bastava solo riconoscerle e non farle diventare pietre d’inciampo. Perché come ripete spesso don Gigi, “ogni essere umano ha bisogno di tre cose: pane affetto e sentirsi a casa da qualche parte, dove sei ascoltato e puoi essere come sei.”
Questo è il mio dialogo con Massimo Orlandi.


Il tuo libro è un atto d’amore nei confronti di Romena. A distanza di anni, quali sono secondo le intuizioni originarie che hanno retto nel tempo ?

Non credo che, all’essenza, ciò che viviamo oggi a Romena sia molto diverso da quello che abbiamo cominciato a vivere trenta anni fa. E questo per un dato di fatto molto semplice. Perché la fonte della nostra ispirazione è la pieve.  Noi non abbiamo inventato niente. Ciò che abbiamo scoperto c’era già. E cosa dice la pieve a chiunque la visiti? La prima cosa che fa in quello spazio così semplice è proporti di metterti a nudo, di essere quello che sei, di mettere da una parte le maschere dei ruoli, in poche parole di essere autentico. La seconda cosa che fa  è accoglierti, accoglierti in un abbraccio largo: nei suoi capitelli sono raffigurate figure positive e negative, angeli e demoni; è come se ti dicesse che tutta l’umanità ha un posto lì dentro, che non si giudica, si accoglie e basta. Infine, in una iscrizione la pieve ci dice che fu costruita in tempore famis, in tempo di carestia: quel luogo così bello è frutto di una crisi. E questo ci dice che le nostre crisi possono essere trasformate, che le nostre debolezze possono diventare un punto di forza. Questi inviti della pieve noi li sentiamo addosso ogni giorno. E, con tutte le imperfezioni, proviamo a restarvi fedeli.

La storia di Romena è, soprattutto, una storia di “un porto di terra”. Quali sono le intuizioni maturate invece durante gli approdi dei tanti amici?

I tanti viandanti che sono passati da Romena hanno avuto un ruolo decisivo nella nostra storia. Il nostro cammino non nasce dall’esecuzione di un progetto, ma dal seguire la scia degli incontri. Ogni persona che è passata ha lasciato un pensiero, un sogno, un dolore, una lacrima che è servita a modellare l’insieme. Mentre scrivevo il libro si era nel lockdown, Romena era silenziosa e solitaria, eppure stando nei suoi spazi io avvertivo tutta la bellezza e la forza dell’umanità che in questi anni l’ha visitata.

La fragilità è una parola chiave di Romena. Può esserlo anche dal punto di vista dell’esperienza cristiana? E in che modo?

La fragilità è i un canale di comunicazione che ci permette di incontrarci in profondità, di lasciar perdere ciò che si muove in superficie. L’Abbè Pierre ci disse che la cosa più importante per una comunità come la nostra era lasciare sempre un vetro rotto. Una persona diventa accogliente non se si presenta perfetta, ma se si mostra per quello che è, con i suoi buchi neri, con le sue fatiche. Così anche una comunità. I vetri rotti nostri e di chi ci ha visitato sono la premessa di un incontro vero: e quando si sente che ci si può mostrare per quello che siamo ci si sente a casa, ci si sente non giudicati, si sente di avere un posto nel mondo. E’ un passo fondamentale. La fragilità, specie quella più esposta ci porta poi a confrontarci ancora di più con la nostra dimensione spirituale. A Romena c’è un grande gruppo di genitori  che hanno vissuto il dolore più rane, la perdita di un figlio. Per noi sono un continuo richiamo all’essenziale. Loro non possono accontentarsi di una fede di superficie, di una fede formale, hanno bisogno davvero di capire che relazione c’è con l’infinito in cui siamo immersi, che valore hanno le nostre vite, dove conducono, su come si rapporta la finitezza umana e l’infinitezza degli affetti che sentiamo dentro. L’esperienza cristiana non è questo? Non è un dar senso e direzione all’ansia di amore che abbiamo addosso?

Come tenere insieme l’identità cristiana con la necessaria e ostinata apertura alle differenze, umane e religiose?

Non saprei risponderti. Noi la figura di Gesù la sentiamo aperta e dialogante. Nella nostra chiesa vengono persone di ogni provenienza e di ogni credo e noi affidiamo loro la nostra sensibilità cristiana senza imporla. Don Luigi, Gigi, ha sempre detto che per lui la vocazione era stata un innamoramento.  L’innamoramento per Gesù è l’innamoramento per l’uomo, è la voglia di trasmettere un’energia di amore. Nella nostra esperienza tutto questo è avvenuto senza mai dover sottolineare le differenze con altri stili e percorsi, ma invece rilevando quanto, in profondità, ci siano tanti punti di unione. Padre Giovanni Vannucci, figura di grande ispirazione per noi diceva che “Le religioni sono come i raggi di una ruota. Tutti puntano verso il centro”.

Non temi che Romena corra il rischio dell’indistinto?

Quando si è così immersi nelle storie delle persone,  quando si toccano le domande vere e profonde di ogni essere umano, spesso colto in un momento di crisi e di abbandono, io non credo che questo rischio esista. Esiste semmai un altro rischio, inevitabile: quello dell’insufficienza. Non basta mai quello che si può fare, dire, essere di fronte a queste tante persone che attraccano, con le loro ammaccature, nel nostro porto di terra.

Romena non può essere separata dalla straordinaria vicenda umana e spirituale di don Gigi. Ce la puoi riassumere?

Certo. Ho conosciuto Gigi nel 1983. Io diventavo maggiorenne, lui prete. Ha avuto un incarico nel mio paese, Pratovecchio, per sette anni. Poi, nel 1990 se n’è andato: era entrato in crisi, non sapeva cosa voleva fare della sua vita. In quell’anno ha fatto i conti con la sua umanità ancor prima con la sua vocazione, ha affrontato un problema fisico (era nato con alcune malformazioni dovute a un farmaco che sua madre, come tante altre, aveva assunto durante la gravidanza) trasformando quella debolezza in una forza. Quando è tornato ha chiesto al vescovo di poter realizzare una nuova esperienza a Romena, in una pieve abbandonata che dista un chilometro dal paese. Il Vescovo ha accettato e così è nata la Fraternità di Romena di cui Gigi è stato ed è  ispiratore, anima, fuoco vivo.

Quali antidoti avete adottato per impedire che possa essere un carisma troppo ingombrante?

Sappiamo bene che Romena come molte realtà analoghe è fondata sulla precarietà. Il carisma di Gigi è fondativo e insostituibile. Ma Gigi non è Romena. Romena è di più. E questa anche per la volontà del suo fondatore. Se vieni a Romena ti accorgi che quel luogo, le sue attività, i suoi spazi, le sue atmosfere contano a prescindere da Gigi. Non si viene da noi per cercare una guida, un guru, ma un luogo, e soprattutto, in quel luogo, per incontrare se stessi. E Gigi ha fatto di tutto in questi trent’anni perché Romena, anche negli spazi nuovi creati intorno alla pieve, si esprimesse attraverso una bellezza calda, viva, in cui ciascuno possa riconoscersi e abbracciarsi. Senza bisogno di dipendere da nessuno.

Fra gli amici c’era fra Giorgio Bonati. Come è arrivato a Romena e cosa ti colpiva di lui?

Giorgio era un uomo innamorato di tutto. Sapeva dare valore a una foglia mossa dal vento, a un abbraccio, a un raggio di sole. Amava la vita con una intensità unica. I suoi abbracci lasciavano un’impronta di calore indimenticabile. Era frate nel senso più vero di fratello: viveva le sue giornate offrendosi. Non temeva la morte, sentiva piuttosto la necessità di non perdere neanche un goccio di vita. Se ne è andato troppo presto, ma noi lo sentiamo vivo, polline che aiuta la nostra vita a continuare a sbocciare.

Come immagini il futuro di Romena?

Non lo immagino. La provvidenza è un vento leggero che ci ha scompigliato e ci ha orientato sin qui, regalandoci tante sorprese e un tesoro di umanità infinito. Non si tratta razionalmente di guardare avanti, ma di esserci, ogni giorno, fidandoci.