Raccontarsi, recuperare il proprio ruolo profetico. Caritas, le sfide da cogliere

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«È cambiato il mondo, è cambiata la povertà, è cambiata la nostra struttura. Ma è anche venuta un po’ meno, credo, la dimensione profetica e pedagogica che dovrebbe caratterizzare l’operato di Caritas, a favore invece di una dimensione esclusivamente pratica: che va benissimo, a patto che non ci si dimentichi che non può essere l’unica. E in un mondo sempre più interconnesso, sempre più articolato, non possiamo sottrarci a questa questione straordinariamente attuale». A parlare è don Roberto Trussardi, direttore di Caritas Diocesana Bergamo. L’abbiamo contattato in occasione dei 50 anni di Caritas Italiana, per capire con lui come si è evoluta l’azione di Caritas anche sul territorio bergamasco e che ruolo può ricoprire oggi l’associazione in un’epoca dai mutamenti così rapidi e, anche, così drastici.  

Ritrovare una voce profetica

«La Caritas bergamasca è nata nel ’75, poco dopo la nascita di quella italiana», spiega don Roberto. «Caritas è la voce della chiesa di Bergamo rispetto al tema della povertà, della fragilità e della marginalità, ma dovrebbe anche svolgere un ruolo di formazione ed educazione delle comunità cristiane nel segno della carità. Insomma troppo spesso riduciamo Caritas esclusivamente alla dimensione del servizio, dimenticandoci che dovrebbe avere anche un preciso compito pedagogico, non solo assistenziale». Attiva da 46 anni sul territorio, Caritas Bergamasca ha visto mutare non solo la sua struttura interna (passando da un gruppo di volontari e pochissimi operatori fissi, a una squadra di quasi 40 operatori), ma anche la tipologia stessa di povertà di cui prendersi cura: «La fragilità di oggi è molto più complessa di quanto non fosse qualche decennio fa», continua don Roberto. «Oggi abbiamo molteplici povertà, situazioni molto diverse tra loro e inimmaginabili ad esempio negli anni Ottanta. Pensiamo alla situazione dei migranti, ma anche ai problemi psicologici e psichiatrici acuiti dal post-Covid. Ma pensiamo anche alla questione occupazionale: trent’anni fa era impensabile parlare di disoccupazione diffusa, eppure questa è un’altra tendenza degli ultimi tempi che il Covid ha contribuito a rendere ancora più scottante. In 46 anni è cambiato il mondo, e dopo la pandemia… Aiuto».

Secondo don Roberto, però, l’azione di Caritas è stata troppo spesso «ridotta esclusivamente al fare, fare, fare, mentre è venuto un po’ meno l’aspetto relazionale con il povero, la volontà di conoscerlo e capirlo prima di dare risposte. È forse il riflesso del pragmatismo della gente bergamasca, abituata a rimboccarsi le maniche e agire concretamente per chi ha bisogno: questa è indubbiamente una cosa a cui va riconosciuto un grande merito. Eppure, penso che come Caritas troppo spesso ci troviamo a tamponare i problemi a valle, anziché lavorare a monte per evitarli. Dovremmo lavorare maggiormente sulla progettualità, anziché sull’assistenzialismo. È questo che intendo quando parlo della necessità di ritrovare la vocazione profetica di Caritas».

Comunicare di più per operare meglio

Una vocazione profetica che, secondo don Roberto, dovrebbe svilupparsi lungo due direttrici: l’azione politica di Caritas (intendendo con “politica” la capacità di agire non sugli effetti della povertà ma sulle sue cause, a cominciare da leggi diseguali che accrescono le fragilità già alla radice, anziché limitarle) e la necessità di comunicare e comunicarsi, di far sapere ciò che fa sui territori. «Quello della comunicazione è un tema interessante da affrontare proprio a livello di Chiesa nel suo complesso, oltre che di Caritas nello specifico. Abbiamo, soprattutto a Bergamo, mezzi di comunicazione molto potenti, eppure non riusciamo a essere incisivi. Come mai? Perché sul territorio bergamasco pochissimi, anche nelle stesse comunità diocesane, conoscono i progetti messi in atto da Caritas per contrastare le marginalità? Come è possibile?».

Eppure, continua don Roberto tornando sul tema della vocazione pedagogica di Caritas, educare all’inclusione senza informare è impossibile. «Raccontarsi non significa cercare complimenti. Raccontarsi significa coinvolgere le comunità nel contrasto alle povertà, dare valore all’azione concreta e quotidiana degli operatori e dei volontari e a quella chiesa silenziosa spesso ignorata o bistrattata, che investe grandi risorse per rispondere ai bisogni degli ultimi e degli invisibili. Ma significa anche rendersi conto di vivere in un mondo che fa della comunicazione il proprio mantra: o racconti bene ciò che fai, oppure non esisti. E la comunità cristiana dovrebbe porsi seriamente il problema: le chiese sono vuote, fatichiamo a coinvolgere i giovani, questo vorrà pure dire qualcosa». Secondo il sacerdote, dunque, è questa la sfida che dopo 46 anni attende Caritas Bergamasca: la necessità cioè di recuperare il proprio ruolo profetico, passando però da un’informazione al passo con i tempi e capace di raccontare in modo autentico e bello ciò che si fa ogni giorno. «Siamo pronti, come Chiesa e come Caritas, a coglierla, questa sfida?».