La notizia è stata un duro colpo. Il sito della diocesi di Milano l’aveva pubblicata da pochi minuti quando mi è comparsa sul cellulare la notifica. Un giovane prete, di 29 anni, curato di un Oratorio milanese, è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale su minori, mentre era in vacanza con una sessantina di ragazzi dell’Oratorio a Bardonecchia. Per me, curato di Oratorio e confratello di don Emanuele, è sempre motivo di profondo dolore leggere queste notizie.
Mi è venuto spontaneo, anche se non conosco questo prete, pensare innanzitutto ai suoi ragazzi e alla sua famiglia. Non so se abbia ancora la mamma e il papà, immagino di sì, vista la giovane età. Immagino questa mamma alla notizia dell’arresto del figlio, la reazione di chi gli vuole bene, di chi ha fiducia in lui, il dolore del suo Vescovo, dei suoi superiori in Seminario, dei suoi compagni di ordinazione. Un fatto in particolare mi ha colpito, assolutamente atteso, tanto che avrei potuto scommettere non sarebbe trascorsa mezz’ora prima che avvenisse; una reazione che mi suggerisce l’urgenza di una seria riflessione soprattutto sull’utilizzo dei social networks.
Chiesa e pedofilia, una premessa necessaria
Prima di soffermarmi su questo, una premessa necessaria: non intendo difendere nessuno con la mia riflessione. Anzi, chi mi conosce ben sa qual è il mio pensiero sulla pedofilia: è un reato gravissimo e chi se ne macchia deve assumersi la propria responsabilità e affrontare quanto la giustizia riterrà opportuno stabilire come pena.
Nel caso del prete o del religioso, ci sarà anche l’ordinamento canonico, recentemente aggiornato dal papa, che per casi accertati di pedofilia giunge fino alla pena massima, ossia la riduzione allo stato laicale per il colpevole.
La scelta di un’immagine per veicolare un concetto
Ciò detto, mi ha fatto male vedere l’immagine di don Emanuele, ritratto durante la celebrazione dell’Eucarestia (e non mi si dica che era l’unica foto rintracciabile.. è ovvio che la scelta è voluta, per veicolare un concetto ben preciso), pubblicata anche da giornali di rilievo nazionale, che riportavano come titoli vere e proprie sentenze. In poche parole, quest’uomo, soprattutto sui social networks, è già stato condannato. È colpevole.
A poco è servito, come qualcuno timidamente ha provato a fare per fermare l’onda di insulti rivolti non solo a don Emanuele, ma a tutti i preti e tutta la Chiesa, ricordare che, nell’ordinamento giuridico italiano, c’è la presunzione di innocenza fino all’ultimo grado di giudizio. No, per molti è sufficiente vedere che l’accusato è un prete per attivare la macchina del fango, che giunge fino all’identificazione tra il prete e il pedofilo, come se tutti i preti fossero pedofili e tutti i pedofili fossero preti (mi sembra che le statistiche dicano altro, con la maggioranza degli abusi sessuali su minori che avvengono nella cerchia dei parenti stretti, soprattutto commessi da nonni e zii sui nipoti).
Riflettere sulle modalità di informazione
La domanda che mi pongo è questa: non esiste altra modalità per fare informazione? Perché continuare così, se sappiamo che molta gente reagirà nei suddetti modi? Provo a formulare un’ipotesi, sperando vivamente essa diventi realtà: ammettiamo che si scopra che don Emanuele è innocente, che ci sono stati fraintendimenti, che qualcuno, magari per risentimento o altro, ha voluto colpirlo con calunnie e la giustizia determini che è innocente.
In quel caso, che si farà? Cosa faranno le testate giornalistiche che, per incrementare i lettori, hanno divulgato la notizia esprimendo già la loro sentenza? Andranno i direttori da don Emanuele a chieder scusa o gli diranno “dai, porta pazienza, oggi l’informazione si fa così… dobbiamo vendere”?
Chi andrà dal Vescovo Mario a dirgli “ci scusiamo eccellenza, l’abbiamo accusata di aver nascosto un caso di pedofilia nonostante lei avesse affermato, nel suo sito istituzionale, che né lei, né la curia né il parroco di don Emanuele sapevate nulla”? Chi toglierà il dolore a quella mamma, che la segnerà a vita, anche se suo figlio risultasse innocente? È ora di riflettere seriamente su come si fa informazione oggi, sui processi sommari che sui social infangano categorie intere di persone, sulla superficialità con la quale si giudica la vita degli altri. È un passaggio urgente, da fare prima che sia troppo tardi.