“Se Carlo Acutis avesse trent’anni”. La schiettezza cristiana di un beato che parla ai giovani

Carlo Acutis, nato a Londra il 3 maggio 1991 è morto a Monza il 12 ottobre 2006 a soli 15 anni andando via in un soffio a causa di una leucemia fulminante, dopo aver offerto le sue sofferenze per il Papa e per la Chiesa.

Definito “Quasi un Frassati milanese”, Carlo è stato sepolto secondo il suo desiderio nel cimitero di Assisi, dove è rimasto fino alla traslazione nel Santuario della Spogliazione avvenuta il 6 aprile 2019, nella stessa città.

Oltre 200 siti e blog in diverse lingue parlano di lui

Oggi ci sono più di 200 siti e blog in diverse lingue, che parlano di Carlo, beatificato il 10 ottobre del 2020 ad Assisi da Papa Francesco, che il giorno successivo l’ha ricordato al termine dell’Angelus affermando che “la sua testimonianza indica ai giovani di oggi che la vera felicità si trova mettendo Dio al primo posto e servendolo nei fratelli, specialmente gli ultimi”. 

Carlo Acutis ha vissuto solo per 15 anni, ma il suo esempio di fede resterà per sempre nei cuori dei fedeli, soprattutto di quelli più giovani.

Nel volume “Se Carlo Acutis avesse trent’anni. Una nuova lettura delle sue intuizioni spirituali” (Gruppo Editoriale San Paolo 2021, pp. 160, 15,00 euro), Alessandro Deho’ redige un’intensa meditazione-dialogo con il giovane beato, dove l’autore si mette in gioco, portando tutto il suo personale cammino spirituale, che a tratti rivela che sia stato difficile, complesso, doloroso, obbligandosi a “fare i conti” con la schiettezza cristiana di Carlo.

Fare i conti con la schiettezza cristiana di Carlo Acutis

“Ciò che veramente ci renderà belli agli occhi di Dio sarà solo il modo in cui lo avremo amato e come avremo amato i nostri fratelli”. 

Ogni capitolo del testo si apre con una frase citata direttamente dalla sua pagina Facebook, che fa comprendere la personalità di questo giovane dal viso pulito e specchiato. Carlo Acutis, ragazzo della porta accanto, straordinario nella quotidianità, sempre attento ai bisogni degli altri, il cui motto era: “Prima Dio, poi io”, uno dei suoi motti preferiti, viene ricordato in questo dialogo da don Alessandro Deho’, nato il 31 maggio 1975 a Romano di Lombardia (BG), sacerdote dal 2006, che da qualche mese vive in Lunigiana, in una casa dentro un bosco vicino a un eremo, dove prega, cammina, accoglie, ascolta e celebra, pubblicando le omelie sul blog: 

www.alessandrodeho.com

Don Deho’, possiamo definire questo testo come una sorta di colloquio interiore tra Lei e il Beato Carlo Acutis?

«Di libri su Acutis ce ne sono tantissimi, io ho scelto di non avvicinarmi alla biografia di Carlo ma di accostare alcune sue frasi, sono frasi di uno straordinario quindicenne però… pur sempre quindicenne. Ripensando alla maturazione umana che ciascuno di noi attraversa, ho provato a proiettare le frasi di Carlo nel futuro… come sarebbero maturate? Il dialogo non è quindi il mio con Carlo ma quello del lettore, che è invitato a dialogare con delle intuizioni che però chiedono un cammino. Il mio sogno era di scrivere un libro sulla necessità di far maturare la fede, di farla crescere, di non fermarsi a un’idea infantile, cosa che purtroppo troppo spesso accade». 

Papa Francesco ha definito Carlo “Beato millennial”. Che cosa ne pensa?

«Non sapevo che Papa Francesco avesse usato queste parole, il papa è persona intelligente e credo abbia declinato questo slogan in un discorso più articolato e complesso. Come avrà letto nel libro il mio taglio non è per niente furbo, può essere criticato ma non è per nulla seduttivo. A me della definizione interessa poco, la domanda vera per me è: leggendo le splendide intuizioni di Carlo tu cosa dici della tua fede? Stai tentando strade adulte, mature, lontane da involuzioni infantilistiche?».

Carlo Acutis che cosa avrebbe detto ai suoi coetanei di oggi, ai giovani che lo seguono, e, soprattutto, a chi non l’ha ancora scoperto, se fosse rimasto tra noi? 

«Non mi sognerei mai di far dire a Carlo cose che lui non ha mai detto. Credo sia invece più importante andare a leggere quello che lui ha effettivamente lasciato, provare a stupirsi per quanto Vangelo ci sia nelle sue parole e poi dirsi: ma io, alla luce di quella vita, illuminato dal Vangelo, io che cosa ho da dire con la mia storia agli uomini che incontro. Il libro si fonda proprio su questo. Non ci servono altri santi, non ci servono altri “miti” ma dobbiamo provare noi ad essere più profetici incarnando una vita evangelica onesta e matura».

La passione di Carlo era l’informatica. Per questo motivo viene indicato come possibile futuro patrono di Internet?

«Carlo amava l’informatica ma la sua forza, a mio avviso, è quella di tutte le persone che sono così intelligenti da non separare mai lo sguardo tecnico dall’amore per l’uomo. Abbiamo bisogno di uomini innamorati dell’uomo come lo era Cristo. Se sei innamorato dell’uomo puoi essere informatico e narrare il Vangelo, se non lo sei puoi anche essere Cardinale ma non incarnerai mai la Parola». 

Carlo Acutis aveva compreso l’importanza dei nuovi media per diffondere il Vangelo fra la gente. Un’intuizione geniale la sua? 

«Aveva quindici anni, come tutti i coetanei viveva nel suo tempo. Era normale affacciarsi al mondo dell’informatica. Essendo dentro il mondo parrocchiale ha unito questi ambiti. Solo chi è adulto legge le novità come “intuizioni”, per i giovani sono la normalità. Se poi chiede a me se i media servono per diffondere il Vangelo chiaramente dico di sì, ma naturalmente non basta. Non è bastato stampare la Bibbia per diffondere la Parola, occorre l’incontro, la Carità. Il Vangelo si diffonde nella debolezza, se usiamo i social per imporre il Vangelo non passa. Ma anche i classici pulpiti da cui predichiamo se vengono usati con supponenza allontanano dal Vangelo invece di avvicinare».

Ha mai pensato quanto sarebbe stato forte l’impegno di Carlo al tempo della pandemia? 

«Mi sembra sbagliato voler prendere la figura di un santo e spostarla nel tempo. Quando ero giovanissimo un amico frate mi ha mostrato un fumetto in cui si narrava di un San Francesco moderno che rinunciava a Ferrari e discoteca per aiutare i poveri, credo di non aver mai letto niente di più moralistico e insulso. Le ritraduzioni delle esperienze passate sono sempre pericolose, ripeto che per me la domanda è: alla luce di chi ci ha preceduto, Carlo compreso, come declinerei concretamente la mia relazione con il Risorto? Quale sguardo dare alla pandemia? Come avvicinare la morte?».

Da qualche mese vive in Lunigiana, in una casa in un bosco vicino a un eremo, dove prega, cammina, accoglie, ascolta, celebra e scrive. Quali insegnamenti sta traendo da questa esperienza? 

«Sono molto grato dell’opportunità che mi è stata concessa dai Vescovi di Bergamo e Massa, quello che sto scoprendo in questi anni è la normalità. Una vita normale, lontana dal ruolo di parroco. Questo è quello che sentivo io come fedeltà alla mia vocazione. In questa “normalità ritrovata” sento che molte persone, moltissimi preti, si avvicinano e trovano un fratello. Sono molto più debole ora, non ho schemi pastorali da proporre, non ho nulla se non la possibilità di sottrarmi, lo dico come lo diceva Carlo Acutis “La santificazione non è un processo di aggiunta ma di sottrazione”. Ecco, anche la vita lo è».