Fine vita, monsignor Chiodi: «Prendersi cura di chi soffre fino in fondo, senza accanimento»

Sono più di 700 mila le firme raccolte per il referendum sull’eutanasia che, avviato dall’Associazione Luca Coscioni con il sostegno dei Radicali italiani, si prefigge di abrogare l’articolo 579 del codice penale, rendendo non punibile, di fatto, l’eutanasia, che si realizza somministrando farmaci che provocano la morte di chi la richiede e non, semplicemente, la sospensione delle cure necessarie alla sopravvivenza (come l’alimentazione, l’idratazione o la ventilazione artificiale). Un quesito, quello referendario, che è stato giudicato ambiguo e pretestuoso da diversi rappresentanti della politica e esperti del diritto (come, per esempio, Luciano Violante e Giovanni Maria Flick) e che registra le perplessità anche di don Maurizio Chiodi, docente di Bioetica presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II.

Don Maurizio, che idea si è fatto circa il quesito sul quale sono state raccolte le firme?

«Prima di rispondere, è bene sottolineare come i promotori del referendum si rifacciano anche e soprattutto alla sentenza 242 del 2019, a seguito del caso «dj Fabo-Marco Cappato». In quel caso, la Corte costituzionale, a fronte di un’ipotesi di reato per Marco Cappato per aiuto al suicidio di dj Fabo, aveva ritenuto parzialmente incostituzionale l’articolo 580 del Codice penale, nella misura in cui non contempla quattro circostanze in cui l’aiuto al suicidio andrebbe depenalizzato: la persona è affetta da patologie irreversibili, prova sofferenza intollerabile, è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è incapace di prendere decisioni libere e consapevoli. È bene ricordare, quindi, come la Corte non abbia reputato incostituzionale il reato di aiuto al suicidio in generale, bensì la punizione dell’aiuto in presenza di situazioni molto circostanziate».

Quindi?

«All’orizzonte, si delinea dunque un paradosso: il referendum, intervenendo sull’articolo 579, permette l’omicidio di persona consenziente in qualunque situazione. Se la sentenza della Corte, quindi, permetteva, in alcuni casi estremi e circostanziati, l’aiuto al suicida, il referendum va molto al di là: se la gente venisse chiamata alle urne e il sì prevalesse, verrebbe depenalizzato anche l’omicidio di una persona sana consenziente. Ancora una volta, però, il dibattito parlamentare e quello giuridico sono rivelatori di questioni culturali e etiche più profonde. In gioco non c’è soltanto una legge, bensì costumi e convinzioni. Una legge non azzera né dà vita a un comportamento: è esattamente il contrario. La legge è un effetto, una conseguenza ed è bene accorgersi di come il sentire comune, a livello culturale e antropologico, sia cambiato».

Questo cambiamento è positivo? Quella della “morte on demand” è una libertà da conquistare e difendere?

«Per i promotori del referendum e per moltissimi cittadini la libertà è tale solo quando è declinata in assoluta autodeterminazione. In questa prospettiva, la libertà è “fare ciò che si vuole” fino in fondo e questo vale anche per quanto concerne la morte. A mio avviso, però, questa convinzione è qualcosa di puramente astratto e individualistico. Astratto perché, in realtà, la nostra libertà fa continuamente i conti con ciò che non si è deciso. Non mi riferisco, solamente, al corpo e alle età della vita, ma, soprattutto, alle esperienze e alle relazioni, spesso contingenti. Individualistico perché la nostra libertà non è limitata dall’altro, ma resa possibile grazie all’altro. Ogni uomo è figlio, non si è fatto da solo: all’origine di sé, c’è un principio di incontro. E ciò non può non abbracciare il tema della democrazia, che non si basa sull’individualismo, bensì sulla comunità istituita di soggetti che si riconoscono liberi».

Alla base sembra esserci l’’idea che ci siano vite degne di esser vissute e altre no. Non si rischia di far sentire vecchi e malati come un peso per la società (e per i bilanci economici dello stato)?

«Senza dubbio, il rischio è quello della riduzione utilitaristica dell’altro».

In una “società liquida” nella quale tutto è merce, anche l’uomo è diventato oggetto passivo all’interno del sistema da lui stesso creato? Il grande tema cristiano e heideggeriano del “prendersi cura” perisce sotto i colpi della “dolce morte”?  

«La questione è importante. Viviamo in un’epoca caratterizzata da uno straordinario sviluppo tecnologico della medicina, ma la medicina nasce in Occidente, nel mondo greco, come atto di cura. La domanda da porsi è dunque questa: il curare, oggi, è sempre e automaticamente una forma concreta della cura? Il rischio, forse, è che una medicina ipertecnologica dimentichi che il senso dell’atto medico è la cura e quindi l’alleanza con l’altro che soffre. È una questione etica e culturale fondamentale, che non riguarda solo il fine vita, ma tutta la medicina. Sarebbe grave se la prestazione medica si riducesse a un mero rapporto aziendale, mercantile e contrattualistico fra dottore e paziente, scevro da qualsiasi tipo di relazione».

L’eutanasia non può essere considerata, quindi, come una forma di cura?

«Sotto il profilo antropologico, tanto l’eutanasia quanto l’accanimento terapeutico non sono forme della cura. E su questo bisogna essere chiari. Spesso, i cristiani dicono no all’eutanasia ma non dicono no, con altrettanta fermezza, all’accanimento terapeutico. La vera cura richiede di superare l’alternativa fra eutanasia e accanimento. Perché? Perché entrambe pretendono di dominare e possedere la morte, la prima anticipandola, il secondo, al contrario, posticipandola. Ma la morte non è un evento di cui possiamo disporre: non posso decidere se morire o no, come, del resto, non posso decidere se nascere o meno. Nella vita mi ci trovo. Proprio per questo, il morire è un’esperienza radicale del vivere e non può essere nascosto o occultato: non si può vivere pensando di non dover morire mai. Il no all’eutanasia e all’accanimento significa sì all’accompagnamento del morente. Non sempre, però, è facile distinguere fra eutanasia e sospensione dell’accanimento. Una cosa, infatti, è decidere di provocare la morte, altra cosa è riconoscere l’ineluttabilità del morire. Ci sono situazioni in cui la differenza è sottilissima. Il criterio per capire se le cure siano forme della cura è la proporzionalità delle stesse. Tanto per fare un esempio, quella di Piergiorgio Welby, a mio avviso, non è stata eutanasia, ma sospensione di terapie sproporzionate».

Qual è la risposta per chi soffre?

«La medicina ha oggi tutte le risorse per lenire il dolore. Non mi riferisco solo alla sedazione profonda, ma anche alle cure palliative che, rinunciando all’accanimento, praticano l’accompagnamento non solo da un punto di vista medico e tecnico, ma anche relazionale, psicologico e spirituale».

A volte, i cristiani vengono tacciati di masochismo. È così?

«Il credente non ama il dolore, ma il dolore è componente ineludibile dell’esistenza. Si tratta quindi di affrontarlo, lenirlo e attraversarlo, fra resistenza e resa. Non è possibile cancellarlo radicalmente, ma lo si può vivere prendendosi cura dell’altro che soffre, fino alla fine. Accudendo la dignità della vita umana, mortale e sempre preziosa».