Catechesi e nuove tecnologie. Come cambiano l’identità e il senso di comunità

La pandemia ci ha abituato a pensare che la catechesi può essere anche digitale: per i mezzi utilizzati (durante il lockdown, gli incontri a distanza) ma anche per la necessità di riflettere sulla presenza delle comunità sui social network e sulle “parole giuste” da usare.

Forse non ce ne siamo accorti, ma se ci riflettiamo un attimo è innegabile che il mondo digitale stia cambiando alcuni aspetti centrali della nostra esperienza: l’identità, le relazioni, la fede. Nel volume “Parole al capolinea” (Il Pozzo di Giacobbe 2021, pp. 96, 12 euro), scritto a quattro mani da Giuseppe Riva, docente di Psicologia della Comunicazione e Psicologia e nuove tecnologie della comunicazione all’Università Cattolica di Milano, e don Giacomo Ruggeri, sacerdote della diocesi di Concordia-Pordenone, gli autori spiegano “Come il digitale sta cambiando identità, relazioni, religione”, come recita il sottotitolo del testo. 

Otto parole per raccontare i cambiamenti del mondo

Giuseppe Riva e don Giacomo Ruggeri hanno strutturato la loro analisi come un dialogo, in cui ognuno dei due interlocutori è portatore di un particolare punto di vista. A guidare questa particolare conversazione sono state otto parole: Comunità, Corpo, Potenza, Scel­ta, Fraternità, Relazioni, Identità, Covid, scelte per la loro importanza nel descrivere le trasformazioni che stiamo sperimentando.   

Abbiamo intervistato don Giacomo Ruggeri, guida di “Esercizi spirituali” ignaziani, che riflette sulle mutazioni antro­pologiche generate dal digitale con il criterio del discernimento. 

  • Don Ruggeri, il 2020 verrà ricordato per i cambiamenti individuali e sociali che il coronavirus ha portato con sé, nei quali un ruolo centrale l’ha avuto la tecnologia. Ce ne vuole parlare?

«Innanzitutto voglio precisare che questo testo nasce in collaborazione con il professor Riva, il quale di tecnologia non solo se ne intende ma la insegna presso l’Università Cattolica di Milano. Reciprocamente ci siamo detti che la tecnologia durante la pandemia ha avuto il suo apporto benefico, ma ha avuto anche il suo apporto critico. Tutti erano impreparati alle piattaforme, alla comunicazione da casa, da seduti, quasi da monaci claustrali. Per cui l’aspetto che voglio evidenziare è che questa relazione all’interno della tecnologia con Giuseppe Riva nasce dall’esperienza e dal vissuto. Nella sua veste di psicologo, nella sua relazione con le persone che segue e con i suoi studenti, il professore ha insegnato da casa. È capitato anche a me come sacerdote nel ministero che vivo più da vicino, ovvero quello di guida di  “Esercizi spirituali” ignaziani, vissuto in quel periodo tramite Skype. Quindi in questo caso la tecnologia è stata utile, ma nel contempo ha mostrato tutte le carenze, le fatiche e anche le impreparazioni».

  • Per la prima volta nella storia umana, le relazioni digitali hanno, di fatto, sostituito le interazioni fisiche e ciò è avvenuto durante il lockdown del marzo-maggio 2020. È come se tutti avessimo partecipato a un enorme esperimento sociale?

«Sì, diciamo che la chiusura, la costrizione di stare fermi ha messo in evidenza ancor di più il bisogno di relazione che nel testo chiamiamo anche “interiore”, “profonda”, perché molto prima del Covid-19 c’era una relazione più epidermica, più in superficie. Penso al bisogno di mostrare le proprie fotografie su Facebook, per esempio, o condividere i propri “like”, ma senza un’adeguata riflessione. Il fatto di dover star fermi, chiusi, ha restituito a ogni persona tanto tempo a disposizione, che non eravamo abituati a gestire. Questo ha dato modo alle persone, e l’abbiamo notato dai nostri rispettivi osservatori, di riappropriarsi di quel tempo che prima della pandemia avevano trascurato. Scrivendo questo testo, ci auguriamo che la rigenerazione del Covid-19 riconsegni alle persone un senso di tempo più profondo, più vissuto, e non solamente più “viralizzato” ». 

  • Analizzando la parola “comunità”, Giuseppe Riva parla di trasformazione dell’esperienza di comunità e come siamo passati nel mondo di quelle digitali, dall’essere all’esserci. Lei scrive invece che «l’espressione “comunità dei credenti” è una di quelle frasi che – nel tempo attuale – non dice più nulla». Desidera chiarire la Sua riflessione?

«Non dice più nulla nel senso di come la si intendeva fino a qualche decennio fa. Ciò non vuole dire che la parola “comunità dei credenti” sia sparita. Non ha più quel significato che gli si dava in passato. La pandemia ha messo in evidenza altri aspetti, per esempio, durante il lockdown anche dalle persone non credenti si è elevata la richiesta della celebrazione delle esequie per dare l’ultimo saluto alla persona cara defunta. Mi sono chiesto se in questo caso la Chiesa sta dando una celebrazione, un sacramento e quindi la pastorale della Chiesa è racchiusa intorno alla celebrazione che tutti invocavano, oppure questa esigenza di presenza della Chiesa è anche una richiesta di relazioni “oltre” la soglia, come la chiamo, oltre la sacrestia, oltre l’ambiente parrocchiale. Quando dico che la comunità non c’è più, non dice più nulla, non lo dico in senso negativo, ma in senso critico, costruttivo. Manca un vissuto comune, ma l’esperienza pandemica sta chiedendo alla Chiesa, alla società, di ritessere le azioni più sul vissuto e sul quotidiano. Mancava il territorio ma il territorio è stato subito evidenziato dalla popolazione, quando la Chiesa si è mossa dal punto di vista caritativo, infatti, il terzo settore non può che esserle grato, perché si è fatta subito prossima. La prossimità la Chiesa l’ha sempre vissuta, ovviamente, ma con l’esperienza della pandemia si è mostrata ancora più attiva. Riprendiamoci ora il territorio anche al di là della celebrazione. “La Messa è finita”, dice il prete alla fine della celebrazione, ma la Messa continua fuori dalla chiesa, nelle relazioni tra le persone, anche in quelle realtà dove le persone non frequentano, ma hanno sogni, bisogni e voglia di interagire. Quindi imparare ad imparare da ciò che si è vissuto». 

  • Comunità, Corpo, Potenza, Scel­ta, Fraternità, Relazioni, Identità, Covid. Quale di queste parole al capolinea rende più evidente l’impatto dei media digitali su ciò che siamo e facciamo? 

«Scelgo la parola “Identità”, perché è giunta al capolinea, un capolinea che non è finito ma che riparte in un modo diverso, in un modo inedito che non eravamo abituati a pensare e a dire. Scelgo la parola “Identità”, perché ancor prima dei contenuti, mi voglio relazionare con le persone. “Ci metto la faccia”, significa che prima ancora che la persona dica qualcosa, mettendoci la faccia ha scelto di darsi una identità di relazione. Una sorta di compromissione. Ciò è apprezzato dalle persone, perché non ci si nasconde dietro una tastiera di un PC o di uno smartphone, ma ci si mette la faccia, ci si spende con il corpo e con l’anima. Quindi anche l’identità con l’esperienza della pandemia sta ritrovando un suo DNA». 

  • “Il Covid-19 non è una parola giunta al capolinea”. Cosa ci ha insegnato e ci può insegnare l’esperienza che stiamo vivendo e ci ha stravolto la vita? 

«Più che insegnato, il Covid-19 ci ha restituito fragilità, impotenza, piccolezza. Il Covid-19 ci ha costretti a ritrovare la nostra umiltà. Al di là dell’essere una persona credente o meno, ritengo che ogni persona abbia ricevuto dal virus un bagaglio, “una grammatica nuova” che ora dobbiamo imparare a coniugare per viverla nel quotidiano. Abbiamo tutti una maggiore consapevolezza, ora occorre saperla fruttificare».