Quando fare del bene è non fare del male. L’arte difficile del confronto costruttivo

Negli anni di Seminario, rimase famosa tra noi seminaristi una battuta, decisamente seria, che fece il Vescovo, Mons. Roberto Amadei. Un seminarista di terza teologia, al quale era stata assegnata una classe del seminario minore dove avrebbe svolto il ruolo di “prefetto” (una sorta di “fratello maggiore” per i seminaristi di medie e liceo), disse al Vescovo: “Eccellenza, spero di fare del bene!”.

Con l’intelligenza e la profondità che lo contraddistinguevano, oltre che con il suo senso dell’umorismo, sorridendo il Vescovo Roberto rispose: “Cominciamo a non fare del male, poi, se riusciremo anche a fare del bene, ben venga!”.

Quella risposta data al nostro compagno di seminario non l’ho più dimenticata; anzi, la tengo come base del mio agire pastorale nelle comunità che mi sono affidate.

Credo fermamente in quella affermazione, perché è vera. A volte è proprio così. Mi torna sempre alla mente quel passaggio, splendido nella sua concretezza, della lettera ai Romani di San Paolo: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio ma il male che non voglio”. Ecco, per quanto mi riguarda, cerco sempre di partire dal non fare quel male che non voglio. E questo è talvolta difficile. Difficile perché chiede umiltà.

A volte il silenzio è la scelta migliore

Penso a quando una relazione si incrina, il dialogo si interrompe, si è magari a conoscenza di parole dette sul proprio conto non vere, di accuse ingiuste… capita perfino che sedere nella stessa stanza per una riunione con quella persona risulti faticosissimo.

Per carattere sarei portato a una reazione forte, per questo devo stare in guardia. Cerco allora di applicare quel prezioso suggerimento del vescovo Roberto.

Sì, in alcuni momenti la massima carità possibile che posso esercitare nei confronti del fratello è quella di stare in silenzio, per non inasprire ulteriormente i rapporti.

Cerco anche di evitare ogni occasione pericolosa, che potrebbe portare a un innalzamento di tensione. E chiedo una mano, perché altri mi sostituiscano in quelle parti del lavoro dove non è necessario ci sia proprio io, perché il bene della comunità richiede che le cose vadano avanti con serenità.

Un confronto schietto, stemperando le tensioni

Certo, il momento del confronto schietto deve arrivare, ma è inutile cercarlo in situazione di piena tensione: è bene, invece, prendersi tempo per la preghiera e la riflessione su di sé e sul proprio agito.

Lo stesso vale quando una scelta pastorale lascia perplessi: ciò che conta è che essa scaturisca dal confronto con la comunità o col singolo gruppo che si prende cura di un particolare settore.

Poi, io non ho la sfera magica né la verità in tasca: sono a disposizione e cerco di fare del mio meglio per aiutare la comunità a portare avanti quella attività, quella scelta, quella prospettiva, anche se essa discosta dal mio modo di pensare e di agire.

E mi prendo il tempo del silenzio, benedizione pura quando si fa fatica. Il silenzio permette di ascoltare, di ascoltare la Parola di Dio, la parola dei fratelli, le parole che portiamo nel cuore. Nel silenzio si può leggere e si può leggersi.

E lì, nella preghiera, riscoprire, come scrisse Bernanos chiudendo il Diario di un curato di campagna, che tutto è grazia.