Sinodo dei Vescovi, intervista a don Giuseppe Bonfrate

La prossima domenica 10 ottobre nella Basilica di San Pietro la Messa presieduta da Papa Francesco aprirà ufficialmente la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi in Vaticano, il cui tema è “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Il percorso si articolerà in tre fasi, da ottobre 2021 a ottobre 2023, con una fase diocesana, una continentale, fino a quella conclusiva a livello di Chiesa Universale, giacché come è scritto nel sito del Sinodo 2021 ( www.synod.va/it ):


Camminando insieme, e insieme riflettendo sul percorso compiuto, la Chiesa potrà imparare da ciò che andrà sperimentando, quali processi possono aiutarla a vivere la comunione, a realizzare la partecipazione, ad aprirsi alla missione”.

Insieme a don Giuseppe Bonfrate, presbitero dell’Arcidiocesi di Taranto, professore di teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana e consultore della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, cerchiamo di capire non solo le principali novità del Sinodo 2021 ma anche tutti i nodi sul tavolo.

Don Bonfrate, il Sinodo 2021 è sulla Sinodalità, cioè sul camminare assieme dell’intero popolo di Dio?

«Nel 2015, Papa Francesco, per la commemorazione dei 50 anni dell’istituzione del Sinodo, ha parlato della Chiesa come “costitutivamente sinodale”. La sua forma si esprime nella visibilità del popolo di Dio che partecipa, in comunione, alla missione della Chiesa. La sinodalità, tema del prossimo Sinodo, pone questa realtà come oggetto del dialogo fra tutti i battezzati, ma, attenzione, non semplicemente scambiandosi opinioni, ma nell’ascolto dello Spirito santo. È questo il punto che marca la differenza. La sinodalità è un esercizio di discernimento ecclesiale, in cui è protagonista lo Spirito. Si tratterà, forse, prima di tutto, di usare questa occasione per prendere confidenza con un Dio vivente, che continua a guidare la storia. Gesù lo ha promesso ai suoi discepoli, e questa promessa giunge fino a noi, che non li avrebbe lasciati soli, inviando
lo Spirito. Nel Vangelo di Giovanni si specifica al capitolo 14, che “il Mondo” non potrebbe riceverlo, perché non lo vede e non lo conosce. “Mondo” per l’evangelista Giovanni, ha prevalentemente un significato positivo, designando l’umanità intera, l’universo, la natura, ma ne ha anche una negativa che si collega a “mondanità”, che è l’espressione con cui si indica la maniera con cui deliberatamente, superbamente, con arroganza, per un principio di autosufficienza, ci si oppone allo Spirito e ai suoi valori, quali l’amore, la verità, il bene e la giustizia. Il Sinodo richiede, al contrario una docilità di figli che si lasciano guidare, di persone che considerano il Vangelo il proprio riferimento».

Dunque non più un evento, ma un processo sinodale dalla periferia al cuore della Chiesa, articolato in tre tappe per dare voce a tutti i cattolici?

«Sappiamo che nella Chiesa italiana c’è stata una consuetudine diversa, quella dei Convegni ecclesiali. Un processo sinodale non è un convergere di opinioni e idee utili a illustrare intellettualmente un tema, ma un processo umanissimo e spirituale, insieme, in cui tutti scelgono di essere uguali sotto lo Spirito, con le diverse funzioni che caratterizzano la ministerialità. Ha una tensione universale, non solo per l’apertura dei confini, ma pure per l’inclusività. Non sono pochi gli episodi della Bibbia e della storia cristiana in cui, sorprendentemente, la voce di Dio ha generato occasioni di parola in contesti e soggetti “fuori” dal perimetro delle appartenenze definite, comprese quelle cristiano-cattoliche. La forza propulsiva dello Spirito non si arresta davanti alle “dogane”. Il carattere processuale non è solo una metodologia che indica il procedere dal basso in alto, dalle periferie al centro. Processo implica gradualità e conversione. Ci troviamo in un tempo opportuno, kairós, di ricomprensione e conversione; da non trascurare, è pure l’occasione di considerare quale immagine della Chiesa viene percepita, ascoltando le voci critiche, ristabilendo le giuste priorità, le cosiddette scelte preferenziali. E quanto sarebbe importante permettere di prendere parola anche a chi non frequenta le nostre chiese, domandandoci e domandagli, perché? Quante vite ferite, deluse, disincantate, costituiscono la maggioranza del popolo di Dio che cammina da solo. Ricordiamoci Gesù, il suo sguardo di compassione sulla folla che lo seguiva: “Erano come pecore senza pastore” ».

Il lungo cammino sinodale si andrà a inserire in un contesto planetario, minato da povertà, persecuzioni, incertezza economica, migrazioni, problemi ambientali e da una pandemia non ancora terminata, colpevole di aver fatto esplodere diseguaglianze sociali preesistenti. Che cosa ne pensa?

«Il Papa, incontrando la Diocesi di Roma ha concluso il suo discorso con queste parole: “In
questo tempo di pandemia, il Signore spinge la missione di una Chiesa che sia sacramento di cura. Il mondo ha elevato il suo grido, ha manifestato la sua vulnerabilità: il mondo ha bisogno di cura”. La parola “cura”, include l’intera missione della Chiesa, con l’incisività profetica della denuncia e con l’amorevolezza del porsi come corpo che regge il peso degli altri. Il termine greco hypomonè, nel Nuovo Testamento viene tradotto con perseveranza, oppure pazienza, ma
se vediamo bene dentro quella parola ci sono un avverbio che significa “sotto” e un verbo che si traduce con “restare”, quindi hypomonè significa “sostenere”, mettersi sotto l’altro per portarne il peso. Unendo i due significati appare un’altra parola che è la makrothymia, caratteristica che proviene dalla sapienza contadina, dell’agricoltore che semina nella pazienza dell’attesa del frutto. Attribuita a Dio, e alla sua Chiesa e a ciascuno di noi, significa visione lunga, non avere
fretta, aspettare i tempi di tutti, non lasciare indietro nessuno; sentire in grande, cioè nella speranza di Dio, che vuole la salvezza di tutti. In questo tempo, di fronte a così grandi problemi,
la Chiesa deve primariamente manifestare la sua offerta di cura, di sostegno e di speranza, vedendo oltre. Un oltre però che non arriva da solo. Questo tempo risulta una dolorosissima
rivelazione di vulnerabilità e di correità. Siamo stati tutti, in qualche modo responsabili di una deriva che non potrebbe essere compresa invocando forze oscure. E ci credevamo onnipotenti, e invece…Ora dobbiamo confessare i nostri errori, e ripartire insieme, imparando da essi».

Mancanza di fede, corruzione, pedofilia. Sono questi i maggiori nodi sul tavolo del Sinodo 2021 espressione di una Chiesa a un punto di svolta?

«Lo dicevamo prima. Bisogna avere il coraggio di ascoltare anche le parole dure, avere fiducia che le vittime o i disincantati possano assumere il ruolo di profeti, che, come sappiamo, hanno la capacità di smascherare il male nascosto. Ogni stagione ecclesiale ha le sue crisi. Qualcuno preannuncia la fine, altri un nuovo inizio. Sarebbe un errore non attraversare la crisi con lucidità, coraggio e onestà. In questo modo non sprecheremmo un’occasione propizia. Le crisi purificano, anche lo sguardo, per capire dove stavamo andando e dove, invece, dobbiamo veramente andare. A chi volgiamo il nostro sguardo e a chi lo abbiamo negato. Non voler vedere è una colpa difficile da scusare. Per dei cristiani sarebbe imperdonabile».

È vero che l’obiettivo del Sinodo è archiviare clericalismi e rigidità per dare spazio all’ascolto e all’atteggiamento pastorale?

«Il clericalismo si depotenzia dando concretezza alla realtà della Chiesa popolo di Dio che cammina insieme, in cui i misteri si comprendono come servizi, e non come manifestazione di potere senza limiti, radicato nell’ottusa autoreferenzialità, o sacralizzato per rendere impunibile
l’errore. Una cosa è la responsabilità, che deve avere funzioni e luoghi precisi e riconoscibili, altro è il potere, che è un esercizio delicato e tremendo da esercitare in determinati limiti, e del quale si deve e dovrà sempre rendere conto; spesso in maniera delirante, confuso con l’onnipotenza. Gli abusi cominciano nel lucido delirio che possiede l’altro mentre dovrebbe servirlo. Ah, i cattivi pastori, dice il profeta, sono quelli che anziché servire il proprio gregge, se ne serve. La rigidità è figlia dell’oblio di Dio. Mi spiego: Sempre nel discorso alla Diocesi di Roma, il papa ha stigmatizzato l’ecclesiologia “sostitutiva”, cioè quella che sostituisce Dio con le formule e le norme, avocando a sé ogni cosa. E lo Spirito viene imbavagliato. Nessun discernimento è possibile. In questo modo sarà facile trasformare le parole e la legge di Dio in pietre da scagliare. L’ascolto ci rende sapienti, e la sapienza non è mai rigida. Ascoltare lo Spirito, ascoltarci, e riconoscere la parola dello Spirito nelle parole che ci scambiamo. Sperando che si vigili, che ci sia accortezza, misura, rispetto. Ricordo con quanto Alda Merini ripeteva a tutti quelli che la volevano incontrare: “Amo le persone che sanno scegliere le parole da non dire” ».

Per la prima volta una donna, suor Nathalie Becquart, avrà la presenza in aula anche al momento del voto sul documento finale. Ce ne vuole brevemente parlare?

«Le scelte concrete, alle volte, anticipano i chiarimenti teologici. C’è stata sorpresa per il fatto che divenisse membro di diritto, in quanto Sottosegretario della Segreteria Generale del Sinodo dei vescovi, una donna. Ricordo un’altra sorpresa come segno analogo nel Sinodo del 2015. Come rappresentate dei Religiosi, tra gli altri, era stato designato fratel Hervé Janson, priore generale dei Piccoli Fratelli di Gesù, che non era prete. Ora una donna. Dicevo delle decisioni teologiche: due scelte come queste risolvono, nei fatti, la contrapposizione tra gerarchia e popolo di Dio. Quando il conflitto prevale, da esso discende quell’istinto comprensibile, ma poco utile, di rivendicazione. Il basso che vuole farsi sentire in alto, o prendervi il posto. Sinodalità vuol dire che chi prende parola è parte di un “noi” massimamente inclusivo. Spesso si dimentica che anche sulla comprensione di popolo di Dio ci si è divisi: c’è chi lo ritiene, legittimamente, espressione dei battezzati, ma al tempo del Concilio e subito dopo nacque un dibattito. Se la chiamata universale di salvezza da parte di Dio non eleggesse a suo popolo tutta l’umanità. Sarebbe un errore non far dialogare, inclusivamente, questa visione larga, makrothymia, che tiene in tensione partecipativa le due dimensioni che appartengono entrambe alla realtà del popolo di Dio. Inclusività tra cielo e terra: non dimentichiamo lo Spirito».

(Foto Vatican Media/SIR)

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