Redona, la rassegna “Il lontano presente” riflette su “La città e gli invisibili”

Quali sono le persone “invisibili” delle città e, soprattutto, quali quelle all’interno di un luogo e di un tempo specifico, incarnati dalla Bergamo contemporanea?

È questa la domanda che anima «La città e gli/le invisibili», ultima edizione de «Il lontano presente», rassegna culturale, organizzata dalla parrocchia di Redona e patrocinata dal Comune di Bergamo, che ha preso il via venerdì 8 ottobre.

«La rassegna è nata più di trent’anni fa, all’interno della comunità parrocchiale di Redona e in concomitanza con il mese missionario – racconta Francesco Mazzucotelli, uno dei principali organizzatori della kermesse –. In origine, gli appuntamenti si prefiggevano di far conoscere le attività missionarie e i Paesi in cui esse si svolgevano, in modo da rendere vicine realtà geografiche lontane”.

Uno sguardo su temi internazionali e sociali, con linguaggi diversi

“Col tempo – continua – , la rassegna aveva anche instaurato una solida collaborazione con la Tavola della pace e si era evoluta verso l’approfondimento di tematiche legate alla politica internazionale, penso all’Africa, alla questione migratoria ma anche alle grandi stragi della Storia, come quella che ha riguardato il popolo armeno.

Ultimamente, venuta meno la collaborazione con la Rete della pace, la rassegna ha cercato di rafforzare il legame con le tante espressioni dell’associazionismo di Redona.

È rimasta, comunque, la collocazione temporale nel mese di ottobre e la volontà di scegliere un tema ben preciso e intrecciarlo a linguaggi differenti, sviluppandolo attraverso quattro serate di taglio diverso: una conferenza, uno spettacolo teatrale o musicale e la visione di uno o più film».

Ma la vera svolta è avvenuta l’anno scorso, in seguito alla pandemia di Coronavirus.

Dopo la pandemia: cosa significa sentirsi lontani e vicini

«Durante la precedente edizione, abbiamo optato per un cambiamento radicale, abbandonando i criteri geografici di lontananza e prossimità.

Abbiamo pensato fosse meglio interrogarci su cosa avesse realmente significato, nel contesto della pandemia, sentirsi lontani e vicini ed essere presenti ai bisogni e alle aspettative delle altre persone – spiega Mazzucotelli –. Anche per l’edizione di quest’anno, abbiamo mantenuto lo stesso tipo di sensibilità, raccogliendo una serie di riflessioni sorte, anche in questo caso, nei mesi della pandemia».

«Abbiamo chiacchierato con l’amico Gustavo Martinelli e con altre persone non necessariamente credenti o appartenenti alla realtà ecclesiale. Sono emerse diverse considerazioni riguardo al tema della lontananza intesa come esclusione, in relazione alla città, all’abitare e al vivere assieme. Ciò perché, molto semplicemente, ci si è domandato quanto potesse essere diverso il lockdown in base alle possibilità residenziali di ciascuna persona. È evidente come un conto sia vivere il confinamento in una villa con piscina e giardino, un conto in un monolocale».

Una riflessione sulle relazioni e la qualità della vita

«Senza voler banalizzare troppo l’argomento, i temi della qualità del vivere, sia da un punto di vista individuale che collettivo, ci sono sembrati argomenti che valeva la pena affrontare e sviluppare. Allo stesso modo ci è sembrato interessante approfondire le sensazioni non ancora digerite riguardo alla ristrettezza delle relazioni. Abbiamo dunque tratto ispirazioni da “Le città invisibili” di Italo Calvino per provare a porci diverse domande di senso e di ricerca. Per esempio: che cosa è una città, al di là degli spazi e degli edifici che la compongono? Chi ne fa parte, e chi invece ne è escluso sulla base di meccanismi formali e informali? Quali sono le situazioni di marginalità che il più delle volte non riusciamo nemmeno a vedere? Sotto quali condizioni una città può essere generativa e accogliente? Come cittadine e cittadini qual è il nostro ruolo per sostenere questi processi senza ingenuità e anzi con la consapevolezza dei grandi interessi finanziari che determinano le trasformazioni urbane?».

Domande non semplici, ma a cui, la settimana scorsa, l’architetto Mariola Peretti e il sociologo Alessandro Coppola hanno cercato di rispondere. Per Peretti, la città è, allo stesso tempo, un concetto teorico e un sistema perennemente aperto. Possiede un proprio hardware (le infrastrutture, gli edifici, gli spazi vuoti e gli spazi pieni) e un proprio software (le persone che la abitano e le relazioni che queste costruiscono).

Senza legami una città diventa “non-luogo”

Una città priva dell’aspetto relazionale e del senso di fare parte di un “noi” diventa un non-luogo, in cui prevalgono l’alienazione e lo spaesamento.

Nel contesto contemporaneo, le trasformazioni urbane sono determinate da fattori economici (flussi di capitale, investimenti, cambiamenti nel mercato del lavoro) che sono generati altrove rispetto ai luoghi e alle città direttamente interessate: secondo l’architetto, Bergamo cambia sulla base di dinamiche che partono e si sviluppano altrove (concentrazione di capitali, flussi logistici globali, trasporto aereo).

Un progetto di sistema dovrebbe porre un freno a queste concentrazioni e allo svuotamento della provincia non solo per motivi affettivi o “estetici”, ma anche per motivi economici, sociali e politici. Per Coppola, esiste una combinazione molto potente tra esclusione de jure (si pensi alle “seconde generazioni”) ed esclusione de facto, che crea barriere alla cittadinanza anche a livello locale.

I meccanismi di esclusione e di autoesclusione determinano oggi una democrazia locale sempre più asfittica, con un deficit di legittimazione democratica dal basso.

«Sia per Peretti che per Coppola – dice Mazzucotelli –, da una parte sono necessarie politiche pubbliche che non inseguano solo le logiche di mercato; dall’altra parte è necessario coltivare una partecipazione che però deve essere capace di avanzare richieste concrete e pragmatiche, con un approccio realistico e puntuale, con un obiettivo redistributivo e comunque tenendo conto del rischio che i “comitati spontanei” diventano spesso gruppi che “se la cantano e se la suonano” tra di loro».

Un film, uno spettacolo, un viaggio fra le opere d’arte

Gli appuntamenti de «La città e gli/le invisibili», che si svolgeranno tutti presso il teatro «Qoelet» (ore 21), proseguiranno venerdì 15 ottobre. In programma la proiezione del film «I ricordi del fiume» (2015), di Gianluca e Massimiliano De Serio. La pellicola descrive un caso di marginalità urbana specifico, ovvero quello del Platz di Torino, che, prima del suo sgombero, qualche anno fa, era una delle baraccopoli più grandi d’Europa.

La serata sarà accompagnata da un’intervista video, ad opera di Alessandro Lanfranchi, ai due registi. Il 22 ottobre, Giovanna Brambilla (Gamec) presenterà un viaggio nelle raffigurazioni artistiche delle “città invivibili”, mentre il venerdì successivo, a conclusione della rassegna e grazie al contributo di Maria Grazia Panigada, ci sarà uno spettacolo teatrale ad opera della compagnia Atir Teatro di Ringhiera di Milano, dal titolo «Grate» (regia di Gianni Biondillo).

Lo spettacolo mette in scena la vita di tre suore di clausura (tutte interpretate da Chiara Stoppa), che vedono il mondo e la città da dietro le grate di un convento. Al centro dell’intreccio ci sono la gratitudine e la speranza.

Trasformare la città in ambiente generativo

Al termine, ci sarà un incontro con l’autore e l’attrice. Tutte le serate saranno gratuite, ad accezione dell’ultima, per la quale sarà necessario acquistare i biglietti (12 euro) sul sito redona.18tickets.it.

A margine di «Le città invisibili», sarà possibile visitare la mostra d’arte organizzata in collaborazione con alcuni detenuti della casa circondariale di Bergamo.

«È sicuramente ambizioso cercare di capire cosa realmente avvenga ai margini della città – spiega Mazzucotelli –, provare a comprendere ciò che appare invisibile e lontano anche se condivide le stesse vie e le stesse piazze che percorriamo, ma, in un mondo sempre più complesso e in trasformazione, non abbiamo la presunzione di giungere a delle risposte. Siamo certi, invece, come dallo scambio di idee e dalla ricucitura di prospettive diverse si possa tessere un discorso di senso, affinché le nostre città possano davvero diventare generative, ovvero rendere possibile, equo e dignitoso l’accesso al maggior numero di opzioni alla più ampia platea di persone».