Padre Flor, missionario di frontiera da Lenna alla Colombia

Padre florenzo rigoni

È con la metafora di una nave sballottata che Padre Florenzo Maria Rigoni, missionario scalabriniano originario di Lenna, racconta in alcune lettere le sue recenti esperienze missionarie dopo aver concluso il suo lungo mandato in Messico.

Occhi azzurri, lunga barba ormai bianca come il saio che indossa con un crocifisso nella cinta, Padre Flor – come si firma nelle lettere – è nato nel 1944 ed è stato ordinato sacerdote e missionario nel 1969. Negli anni è stato in Giappone, Germania, Africa e America centrale e nell’ultimo periodo ha avuto varie e brevi esperienze missionarie prima di approdare a Bogotà, in Colombia.

«La mia nave è stata sballottata per mesi, da quando ho lasciato il Messico dopo 38 anni – scrive in alcune lettere inviate  al Gruppo Missionario dell’alta Valle Brembana e che saranno pubblicate integralmente sul notiziario “L’Alta Valle Brembana” di novembre – . Ho avuto a Roma un primo incontro con il Vescovo di Addis Abeba in Etiopia per un progetto che mi entusiasmò e che mi ributtava in Africa dove ero rimasto per 4 anni in mezzo a campi di rifugiati e frontiere di guerre civili. 

La Casa del migrante e una scuola di avviamento

Il progetto si concluse senza un impegno definitivo e la nave di nuovo in alto mare. Spuntò il Libano come alternativa per aver studiato un poco di arabo e finalmente la destinazione finale che era in un’isola dell’Indonesia davanti a Singapore, ponte di migliaia di profughi e migranti per saltare sull’altra sponda.  Quando tutto sembrava entrare in porto, la pandemia cambiò i piani e sono atterrato in Colombia con l’incarico di direttore delle nostre opere sociali (degli scalabriniani, ndr) qui in Colombia ed Ecuador».

Il missionario bergamasco si trova a Bogotà da un anno e otto mesi, dove ha aperto una Casa del Migrante con una Scuola di avviamento professionale per quanti vogliono apprendere un lavoro, certificato per una Università che ha aperto le porte, raggiungendo le periferie.

«Qui nella capitale, sempre fredda, perché siamo a 2.600 metri sul livello del mare, noi scalabriniani abbiamo preso una parrocchia […] che non riesce a pagare il salario minimo di un prete, come testimonianza che nonostante tutto le periferie sanno aprirsi ad altri poveri e dimenticati. Oltre la prostituzione, vi sono molti migranti venezuelani, gente che lavora di notte come rigattieri e che completa il lavoro della nettezza urbana, raccogliendo ogni sorta di rifiuti, dal ferro all’alluminio, a scarpe vecchie o mobili buttati sulla strada».

Un centro al confine con il Venezuela

Contemporaneamente Padre Florenzo sta aprendo un centro, il più grande della Congregazione, già in costruzione prima del suo arrivo, sempre come casa di ospitalità e allo stesso tempo con una capacità di scuola per più di 500 studenti. Questo centro si trova sulla frontiera con il Venezuela, dove continua un esodo massiccio di gente in uscita e gente in rientro per aver fallito il loro sogno nei paesi vicini o lontani come il Cile, l’Argentina, il Brasile, il Perù o l’Ecuador.  «In questo momento è bloccato per una opposizione politica da parte di alcune persone influenti. Questo mi dice che l’opera è voluta da Dio e con Scalabrini siamo convinti che viene da Dio perché è ostacolata senza motivi veri. Vivo con un confratello del Messico, con il quale abbiamo stretto una comunità molto profonda, anche se ci separano 35 anni di età.  Io sono come il curato, anche se devo muovermi da qui alla frontiera varie volte per seguire i lavori e assumere il personale per l’apertura, che speriamo sia presto, visto che l’edificio è pronto».

La Messa celebrata a piedi scalzi

Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo sa che quando presiede lui la Messa, celebrata sempre a piedi scalzi anche sul freddo pavimento del Santuario della Coltura di Lenna, si sofferma volentieri in profonde riflessioni.

E anche le sue lettere ne sono ricche. «I miei 52 anni da missionario mi ritrovano in frontiera, come succede ormai da molti anni. Perché contarli? Sono come il giorno di ieri già passato, mentre la notte vorrebbe rinchiudere come in un sepolcro l’ultimo raggio della sera. Sono qui, in frontiera, come pure nel cuore di una metropoli e il centro della zona ufficiale di prostituzione. Almeno qui non vi è l’ipocrisia di voler nascondere quello che tutti vedono, cercano, usano e condannano.

Poi ci sono i migranti, insieme con gli sfollati di una guerra civile che dura 52 anni, in un processo di pace ridotto, come diceva Hitler, a un pezzo di carta, mentre chi muore è un abbraccio di spirito e carne. Poi c’è la frontiera con il Venezuela, dove come Missionari Scalabriniani abbiamo cercato di investire i nostri risparmi e le mani aperte della Provvidenza in questo esodo infinito che non finisce mai. Sono migliaia che escono da una patria che ha rubato loro il pane e la dignità e vanno chiedendo in elemosina un tetto di cartone dove alimentare una speranza ridotta a cenere».

Felice di spendere la vita per gli ultimi

Nelle sue lettere lo scalabriniano ringrazia il Gruppo Missionario e tutte le persone, in particolare gli amici della parrocchia di San Martino oltre la Goggia (Lenna e Piazza Brembana), che lo sostengono con la preghiera e gli aiuti concreti. Infine ammette qualche difficoltà di salute, ma la volontà di proseguire con gioia nella sua opera missionaria tra gli ultimi. «Sono contento, anche se la fragilità degli anni per la prima volta ha bussato alla mia porta, fa capolino in punta di piedi ogni mattina. Eppure ripeto il mio sì come Pietro sulle sponde del lago, in attesa che lo stesso Cristo mi incroci e mi inviti a ripetere: “Signore tu sai che ti amo” e con questo trasformare ogni mia ferita in cicatrice di luce, e sono tante. Qui ho scoperto nelle confessioni la verità del fiore di loto: galleggia integro in tutta la sua bellezza sull’acqua stagnante, sporca e puzzolente, ma la luce non ha odore né profumi: è soltanto luce».