Pierluigi Manenti, missionario a Cuba: “Gravissima crisi, la gente soffre la fame”

Pierluigi Manenti

Don Pierluigi Manenti, 71 anni, è partito per la prima volta per la missione il 25 luglio 1981. La meta era la Bolivia, dove avrebbe passato 18 anni della sua vita. A cui ne sarebbero seguiti altri 22 spesi, invece, a Cuba

“Dopo i primi sei anni come curato a Grassobbio, sono stato mandato in Bolivia – inizia a raccontare il sacerdote, che in questo periodo si trova a casa -. Sono stato inizialmente a Cochabamba, insieme a due preti illustri: don Berto Nicoli e monsignor Gelmi. Dopo i primi cinque anni con loro, però, io e don Mario Maffi siamo partiti per la provincia di Arche, la più povera della Bolivia, una zona dove bisogna camminare 50 km per arrivare alla parrocchia. Viene chiamata ‘la zona dove il diavolo ha perso il mantello’. Lì le antiche tradizioni degli Incas erano ancora vive, Dio viene identificato con il sole, la luna, con la dea della terra. Abbiamo dovuto inserirci nella cultura incaica. Le prime salite e i primi contatti avvenivano in occasione delle loro feste, che coincidevano con il calendario liturgico della chiesa cattolica. Ci ringraziavano e ci dicevano: ‘ci vediamo l’anno prossimo’. Ci siamo visti al muro, andavamo nel villaggio solo una volta all’anno e abbiamo progettato di proporre loro un minimo di preparazione per la prima Comunione e la Cresima. La provincia di Arche da 20 anni non aveva nessun prete: nessuno voleva andarci per il troppo cammino. Nel frattempo, loro chiamavano dei sacristi che prendevano in mano un calice e un’ostia, battezzavano e facevano matrimoni, ovviamente senza nessuna registrazione”.

Dalla provincia di Arche, in Bolivia, all’isola di Cuba

Nel 1998 il rientro in terra bergamasca. Ma per poco tempo. “Il vescovo Amadei ci ha chiamato subito e ci ha fatto la proposta di andare a Cuba, dove siamo ancora attualmente”.

Don Pierluigi trova una situazione molto diversa dalla Bolivia. “A noi che venivamo dalla Bolivia, dove c’era molto analfabetismo, sembrava di arrivare in condizioni più favorevoli. La gente era più aperta e più allegra, però obbediva a un governo marxista-comunista, una situazione completamente diversa da quella boliviana”.

Anche la missione da svolgere è diversa. “Abbiamo iniziato, trattandosi di una zona dove la Chiesa non c’era mai stata, portando casa per casa un’immagine del Sacro cuore e della Madonna del Cobre, storicamente importante per la vita del popolo cubano. Ci siamo identificati come coloro che erano cattolici attraverso alcuni segni visibili. Era una missione in salita: nessuno era mai andato in chiesa, dovevamo essere noi ad andare a presentarci, farci conoscere e si è iniziato dove c’era qualche famiglia che voleva saperne di più della fede”.

La crisi economica a Cuba: la gente soffre la fame

Le chiese qui sono quelle domestiche, le singole case. “All’inizio era tutto nuovo, noi siamo nella provincia di Guantanamo, nei Comuni di San Antonio del Sur e Mias: lì la chiesa ufficiale non era mai stata presente, era tutto nuovo. Trovarci nelle case non era facile: gli incaricati del partito dicevano che dovevamo avere un permesso speciale scritto per poterci riunire. Naturalmente la gente aveva paura, non sapeva come fare. Stando lì e visitando continuamente le famiglie, hanno cominciato a riunirsi. Piano piano la situazione è diventata tranquilla: non era più malvista né ostacolata”.

Ma negli ultimi tempi le cose per Cuba sono peggiorate. “La situazione è diventata terribile negli ultimi mesi perché l’economia cubana dipendeva dal petrolio che il Venezuela dava in cambio di medici, maestri e sportivi e, per una situazione interna del Venezuela, questo scambio non è più possibile. L’economia cubana è sprofondata. Non si trovano gli alimenti primari. I prodotti vengono distribuiti con le tessere: prima, quando finivi quelli dati tramite la tessera, potevi andare a comprarne altri; adesso invece non c’è più niente, se finisci quelli non hai niente da mangiare. Nel mese di luglio ci sono state manifestazioni in cui la gente diceva solo: abbiamo fame”.

“La missione non è costruire edifici, ma gettare semi nel cuore”

A Cuba insieme a don Pierluigi ci sono altri tre preti della nostra Diocesi: don Massimo Peracchi, don Mario Maffi e don Efrem Lazzaroni. “Siamo in fondo all’isola, abbiamo quattro parrocchie distinte, il territorio è grande: in tutto sono 130 mila abitanti, in un territorio di 2.000 km quadrati. Con me ci sono anche tanti laici che vengono a trovarmi e aiutano tutte le iniziative che abbiamo in piedi. Sono loro che hanno permesso di aiutare economicamente chi non ha diritto alla pensione, chi è allettato ma non ha nemmeno i pannoloni, e ancora di distribuire le merende ai ragazzi di scuole. Se non ci fossero stati i laici, non avrei potuto realizzare le poche iniziative che sto facendo: penso in particolare alla gente di Grassobbio, la parrocchia dove ho fatto il curato 46 anni fa, e ad alcuni amici dell’Eco di Bergamo”.

Il 10 novembre don Pierluigi ripartirà per la missione. Animato dai ricordi che gli riempiono il cuore. “In Bolivia c’è voluto tanto tempo, ma qualcuno dichiaratamente diceva: venendo da voi e conoscendo la Chiesa, ho preso consapevolezza che io non sono uguale agli animali con cui vivo giorno e notte, ho qualcosa di più grande. Per noi questi erano segnali che non eravamo andati a perdere tempo, a fare solo iniziative come costruire strade, ambulatori, scuole e chiese. Se c’è un programma socio-umanitario ma la gente non reagisce mostrando di aver incontrato qualcosa di più grande grazie alla conoscenza di Gesù Cristo, la nostra missione sarebbe buona ma evidentemente non arriverebbe al punto fondamentale. Così è stato anche a Cuba, dove non possiamo costruire né scuole né strade né chiese, ma ci sono soprattutto alcuni giovani stanno prendendo consapevolezza che la dignità della persona è insita in noi stessi, non viene data dal partito o dal governo. Chi percepisce questo, vive con una contentezza diversa”.