La vecchiaia, “età da inventare”. Monsignor Vincenzo Paglia: «Non è solo un lungo congedo»

Mons. Vincenzo Paglia, nato a Boville Ernica (Frosinone) il 21 aprile 1945, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia, ha scritto un nuovo saggio “L’età da inventare” (Piemme 2021, Collana “Religione e Spiritualità”, pp. 240, 17,50 euro), con il sottotitolo “La vecchiaia fra memoria ed eternità”.

La vecchiaia è una fase del ciclo della vita a cui prima o poi, tutti andremo incontro. Spesso in questa fase, gli anziani si sentono molto soli e avvertono inevitabilmente il peso degli anni ormai passati e l’avvicinarsi del momento in cui la stessa vita terrena avrà fine.

Quando un individuo diventa anziano si ritrova a capire che non è immortale, a gestire i suoi limiti, e a vivere con ansia la paura della solitudine, della malattia e non ultima la paura della morte

Abbiamo dialogato con Mons. Paglia, che da anni studia e si occupa delle esperienze e dei bisogni delle persone anziane, su queste pagine molto attuali nelle quali propone una visione diversa e innovativa della vecchiaia, considerato anche che l’Italia ha la popolazione più vecchia d’Europa.

Gli anziani muoiono per le malattie, ma anche perché non c’è amore per loro! E neppure pensiero. Sono e re­stano ai margini della società. Ancora oggi è questa la loro condizione. Non c’è una visione per loro, una politica e una cura adeguate. La pandemia li ha sorpresi così, soli. E li ha travolti”. 

Mons. Paglia, fragilità e solitudine sono i grandi drammi che affliggono le persone anziane, anche se l’aspettativa di vita si è allungata. Come fare per riuscire ad affrontare con serenità la vecchiaia, che può diventare un’età da inventare?

«Partiamo dalle cifre. In Italia la popolazione anziana – sopra i 65 anni – raggiunge il 23,4% del totale cioè stiamo parlando di 13,9 milioni di persone. L’Italia, ci dicono i numeri, dopo il Giappone, è il secondo paese al mondo per numero percentuale di anziani. È un cambiamento epocale. E colleghiamo questi dati con un’indagine della Università Cattolica di Milano, secondo cui il 7% degli uomini e l’83% delle donne tra i sessantacinque e i settantacinque anni si sentono “poco” o “per nulla” anziani. Insomma la condizione anziana è molto fluida e plurale, senza un riconoscimento sociale definito e univoco. Allora dobbiamo eliminare il pre-giudizio che la condizione di anziano equivalga a sofferenza e solitudine e cominciare a pensare che siamo davanti a una straordinaria opportunità di ampliare non solo la durata della vita ma anche – soprattutto – la qualità della vita. E gli anziani, tutti, portano alla società un “di più” di sapienza e di “vita”, appunto».

La società contemporanea sembra aver cancellato il pensiero e la consapevolezza della morte, ha eliminato ogni senso di finitezza, generando e alimentando l’illusione di “uomo eterno” e il termine “vecchio” è ritenuto quasi un insulto. Come far comprendere a noi tutti che siamo mortali, il che non rappresenta una minaccia o una condanna, ma è una notizia da accogliere?

«Penso, in proposito, che noi, come Chiesa, potremmo fare di più per gli anziani. Mi sembra, a volte, che si dia per scontata la  partecipazione degli anziani, mentre dovremmo dedicare loro una pastorale più specifica. Dobbiamo prenderci cura di loro, a partire dall’ascolto. Ascoltare le loro idee, i loro bisogni, il desiderio di una spiritualità protesa verso la vita futura, eterna. La presenza di tanti anziani – se sappiamo ascoltarli, guardarli, valorizzarli – non è un “fastidio”. I numeri ci insegnano che oramai non sono una componente “residuale” della società. Così deve cambiare l’approccio della politica, dell’economia, della società intera e delle famiglie. E dunque anche della Chiesa!».

La pandemia da SARS-CoV-2 ha falciato un’intera generazione di anziani, vittime preferite della pandemia. Ci siamo accorti solo in questo doloroso frangente che gli anziani sono la parte più debole della società?

«La pandemia, come un uragano fortissimo, ha messo fine a un modo di vivere. Tornare alla “normalità” significa non dimenticare i milioni di morti e soprattutto la disuguaglianza che esiste nell’accesso alle cure sanitarie, non solo nel mondo, ma anche nel nostro paese. Gli anziani sono la parte “debole” se e solo se non riusciamo a contrastare la “cultura dello scarto”. I deboli, gli anziani, i bambini, sono invece la parte più importante della società, la “cartina al tornasole” per un mondo più umano e fraterno. Dalla pandemia usciamo migliori se riusciamo a considerarci per quel che siamo da sempre: fratelli e sorelle tra di noi».

L’Italia è il secondo Paese al mondo, come Lei ha ben detto, dopo il Giappone, con il maggiore tasso di invecchiamento della popolazione, però non è il Paese in cui si invecchia meglio. Ce ne vuole parlare? 

«Per “invecchiare” meglio è necessaria una rivoluzione culturale. L’età della vecchiaia è l’età della saggezza, ma anche della straordinaria opportunità, oggi, di collegare le generazioni in una nuova alleanza. Per la prima volta nella storia vivono insieme quattro generazioni: i bambini e i giovani, i genitori, i nonni, i bisnonni. Allora servono risorse e servizi per prenderci cura degli anziani, utilizzando le strutture esistenti e integrandole con servizi innovativi, residenziali, utilizzando le tecnologie. La medicina ci fornisce la possibilità di allungare la vita, di venti o trent’anni, rispetto a una generazione fa. Ma questi anni in più devono essere sapientemente utilizzati e gestiti. E serve un progetto di società». 

Papa Francesco ha dichiarato recentemente: “Dio ci insegni a rispettare i nonni, nella loro memoria c’è il futuro di un popolo. Le nonne e i nonni sono la nostra forza e la nostra saggezza. Che il Signore ci dia sempre anziani saggi! Anziani che diano a noi la memoria del nostro popolo, la memoria della Chiesa”. Qual è il grande dono della vecchiaia alle generazioni più giovani?

«Una nuova coscienza generazionale può e deve sorgere, svilupparsi e diffondersi anzitutto tra gli stessi anziani. La vecchiaia non è più un periodo residuale della vita, una lenta e mesta cerimonia di congedo, una categoria omogenea dai bisogni omogenei, ma un grande e variegato continente dell’umanità con orizzonti insperati e insospettabili: ci sono coloro che continuano a lavorare, viaggiano, si contendono con i giovani spazi di intervento e coloro che sono invece emarginati, malati, soli e non auto-sufficienti. In questo modo, i più giovani torneranno a guardare ai loro nonni e bisnonni con interesse, fiducia e speranza».