Don Claudio Forlani, prete accanto agli ultimi. Essere “Uniti nel dono” per aiutarlo nella carità che “rende le persone più belle”

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La carità “non è solo fare, ma amare”. È uno dei pilastri sui quali si regge l’identità di una comunità cristiana, un elemento che ha il potere di trasformare le persone “rendendole più belle”, come racconta don Claudio Forlani, parroco di Sforzatica. Nella sua parrocchia ha fondato una cooperativa sociale per aiutare le persone “dimenticate”, quelle di cui nessuno si prende cura: a ognuna, con un’azione personale di cura, offre una nuova possibilità di vita. La sua storia mostra come sia importante essere davvero “Uniti nel dono” partecipando alla campagna nazionale per il sostentamento dei sacerdoti perché possa continuare l’azione dei preti diocesani. Essa si trasforma in un bene diffuso e contagioso che si allarga alle loro comunità e in particolare alle persone più fragili, a cui nessun altro tende la mano.

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Ci racconta come agisce la vostra cooperativa sociale? Che effetti produce l’azione concreta di carità in parrocchia?

“La carità cambia la comunità, ha il potere di renderla migliore e più autentica. Quando sono arrivato a Sforzatica mi sono ritrovato a operare in due comunità che non avevano mai lavorato insieme, ma la carità gli ha permesso di incontrarsi. Abbiamo aperto una cooperativa sociale per aiutare i fratelli più deboli di cui nessuno si prende cura. Ci sono per esempio persone che hanno avuto un esaurimento nervoso, giovani timidi che non trovano lavoro, qualcuno che ha avuto problemi con la giustizia. Abbiamo provato a far emergere le capacità migliori di ognuno. Stiamo aiutando una quarantina di persone, e ci sono quasi cento volontari. Anche loro sono stati trasformati da questa esperienza, hanno imparato a collaborare, nell’aiutare i poveri hanno scoperto anche il prossimo più vicino. La carità rende davvero comunità e persone più belle. Non si tratta solo di fare, ma di amare. La carità comunque si misura anche in concretezza, è mettere in pratica il Vangelo”.

don Claudio Forlani

Quale parte ha la carità nelle comunità di oggi? Quali cambiamenti ha portato la pandemia?

“Credo sia importante che la carità non sia legata solo alle emergenze o al momento presente. Nella mia parrocchia sono responsabile del Centro di primo ascolto e mi sono chiaramente accorto che le povertà e i bisogni sono aumentati con la pandemia, è sotto gli occhi di tutti. Da parroco, però, non penso che si possa intendere la carità come un tappabuchi da usare al momento del bisogno. Ritengo invece che sia nel dna della Chiesa e della parrocchia, uno dei pilastri sui quali si regge l’identità di una parrocchia e di una comunità cristiana insieme con la liturgia e la Parola. Come uno sgabello ha bisogno di tutte e tre le gambe, senza la carità una comunità zoppica. Per questo, per esempio, noi abbiamo inserito nel programma delle nostre attività una carità operosa, accanto agli ultimi e agli abbandonati. È giusto costruire edifici per la liturgia, così come impegnarsi a creare strutture per l’annuncio della Parola di Dio. Non va bene, invece, lasciare che la carità sia episodica, limitandosi a raccogliere alimentari per i poveri se c’è bisogno. Capita di delegare la carità ad alcune persone capaci di compiere opere buone. A volte però ci dimentichiamo che tutti dovremmo sentirci coinvolti. Se una comunità non si occupa di carità diventa un luogo di filosofi e mistici. Gesù ha insegnato a tendere la mano ai poveri, se non lo facciamo siamo come scribi e farisei”.

Di che cosa è segno la carità delle parrocchie agli occhi della gente?

“È segno della nostra identità. Qualcuno si domanderà perché agiamo in questo modo e troverà forse la strada del buon Dio, ma al di là di questo per noi è come l’aria che respiriamo e ci dà credibilità. Se in una comunità c’è una persona povera, e non intendiamo solo di mezzi, ma di relazioni, come un anziano solo, una persona depressa che non esce di casa, un disoccupato, è fondamentale che tutti se ne facciano carico. Non basta consigliare di dire una preghiera o di rivolgersi ai servizi sociali. Bisogna prendere i fratelli in difficoltà per mano e accompagnarli, perché non sperimentino solitudine e abbandono. Questo è il seme che deponiamo nel mondo. Non siamo solo noi cristiani a fare il bene, anzi, c’è chi lo fa meglio. Ma realizzandolo noi incontriamo Cristo. Quando un cristiano si impegna in un’attività e compie azioni di carità, deve ricordarsi il brano del Vangelo di Matteo 25, sul giorno del Giudizio: “ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me”. Noi incontriamo Dio nella Parola e nei bisogni dei fratelli di qualunque età, nazionalità e genere. Compiamo forse gli stessi gesti degli altri ma per Dio e perché c’è Dio”. 

Non sempre le risorse a disposizione sono sufficienti. La carità è importante anche se non è risolutiva?

“Noi siamo chiamati a fare il bene possibile, non il bene assoluto, magari non posso aiutare mille persone ma una soltanto. È importante farlo con intelligenza, esplorando tutte le strade disponibili. Neanche Gesù ha guarito tutti i malati del mondo, ma è necessario impegnarsi al massimo: può darsi poi che di fronte a una testimonianza convincente le risorse arrivino. Nella mia esperienza capita che la provvidenza arrivi un attimo dopo che qualcuno di noi ha osato fare del bene, magari spingendosi un po’ oltre il possibile. Compiere un’azione nella direzione giusta, con onestà e coerenza, non è mai muovere un passo nel buio”.

Che ruolo avrà la carità nel movimento di rinascita e ricostruzione che ci aspetta nei prossimi anni?

“Come programmiamo la catechesi e la liturgia dovremmo fare anche con la carità, rendendola un elemento strutturale, mettendo insieme le capacità delle persone in modo armonioso. Dev’essere uno stile, non solo azione concreta”.

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