Nobel missionario a Riccardo Giavarini, una vita spesa per l’America latina

Una vita spesa per l’America latina. A ricucire ferite, a generare futuro, ad intrecciare storie e speranze. Riccardo Giavarini, originario di Telgate, ha sulle spalle tanti anni di impegno missionario e nei giorni scorsi la fondazione Cuore amico di Brescia ha voluto tributare il suo operato con il premio del Nobel missionario. Che darà ulteriore supporto e slancio al suo operato in Bolivia.

La prima esperienza a La Paz


La prima partenza di Riccardo per l’America latina risale all’età della prima giovinezza. “Avevo frequentato il ginnasio e il liceo classico in Seminario a Bergamo – inizia a raccontare -. A 20 anni, prima di iniziare la Teologia, scelsi di fare un’esperienza in America latina. Il curato del mio paese si trovava a La Paz e avevo contattato lui. Allora c’era la possibilità di sostituire il servizio militare con due anni di servizio civile e scelsi questa strada. Dopo il corso a Verona, sono partito per la La Paz all’inizio del 1976. Dopo un anno lì, ne ho fatti altri tre e mezzo a Cochabamba, sempre appoggiato ai preti di Bergamo”.
Per il giovane Riccardo, subito esperienze forti. “Erano i tempi della dittatura, segnati dalla violazione dei diritti umani, da morti, desaparecidos e torture. È stato un periodo duro in termini di impatto, sia perché era una realtà sconosciuta, sia perché eravamo coinvolti in una lotta quasi clandestina per proteggere le persone. È stato così fino al 1980, l’anno del colpo di stato: noi
stranieri eravamo tutti marcati, sapevano che difendevamo i diritti umani e ci spendevamo per il
ritorno alla democrazia, io stesso avevo partecipato ad uno sciopero della fame con altri gruppi”.

Dopo il colpo di stato, la decisione di rientrare in Italia. “Ho lavorato come muratore a Telgate, con l’obiettivo di racimolare un po’ di soldi e poter tornare giù. Mi sono messo in contatto con il
progetto Mondo MLAL (Movimento Laici per l’America Latina) e ho iniziato a lavorare in Perù,
sulle Ande
. In quegli anni mi sono sposato con Berta, la mia signora per tutti questi anni, che è
morta un anno fa. Abbiamo lavorato a lungo insieme: lei per la formazione e la pastorale della
donna, io con contadini, catechisti e giovani. Per nove anni siamo stati in un paesino perso nelle
Ande”.


Poi una nuova interruzione, segnata dall’arrivo del movimento rivoluzionario Sendero luminoso.
“Noi eravamo molto attivi con i contadini, loro sono arrivati e proponevano di organizzare lotte
sociali con le armi, all’insegna di terrore, violenza e distruzione. La chiesa del Sud andino era molto forte, eravamo molto uniti e ci trovavamo spesso per momenti di ritiro e riflessione: Sendero luminoso ha cominciato a uccidere sacerdoti, suore e dirigenti popolari. Io verso la fine degli anni ‘80 sono rientrato in Bolivia, dove era ritornata la democrazia. Lì sono stato coordinatore del MLAL per una decina di anni, occupandomi di progetti di sviluppo per contadini, donne, bambini di strada e indigeni delle foreste, con l’obiettivo di migliorare non solo le condizioni economiche, ma la partecipazione, la percezione di essere soggetti attivi, l’educazione, la salute e la difesa dell’ambiente. Mi sono dedicato ai temi dei diritti umani fino ad una decina di anni fa, quando sono uscito dal progetto Mondo MLAL”.

Riccardo Giavarini responsabile della fondazione Munasim Kullakita

Da 15 anni Giavarini è ora responsabile della fondazione Munasim Kullakita (che significa ‘Abbi
cura di te stessa, sorellina’). “Si tratta di un’iniziativa che si occupa di sfruttamento sessuale e
traffico dei minori in Bolivia, un tema che fino a poco tempo fa era trascurato. Io sono andato dal
Vescovo, dicendogli che dovevamo dedicarci noi a questo e così abbiamo costruito la prima equipe e abbiamo cominciato a lavorare in tre direzioni. Innanzitutto, il lavoro in strada, dove siamo presenti tutti i giorni, a cercare adolescenti dai 10 ai 17 anni nelle zone di prostituzione, per capire cosa c’è dietro questo mondo e costruire proposte di intervento per riprendere in mano la vita e la dignità. In secondo luogo, abbiamo aperto una casa famiglia: uno spazio di accoglienza,
accompagnato da una proposta educativa sistemica, che prende in considerazione tutti gli aspetti della loro realtà (igiene, salute, scuola, apprendimento di un lavoro, ma anche lavoro con psicologi e assistenti sociali per curare le ferite) e crea un ambiente sicuro attorno a loro. Infine, c’è il lavoro di rete tra istituzioni per avere criteri comuni di lavoro sulla problematica (non solo un linguaggio e una strategia comune, ma il tentativo di incidere sulle autorità per adottare buone pratiche che vadano a consolidare prevenzione, protezione e persecuzione). Dobbiamo sempre ricordare che queste ragazze (e in alcuni casi il fenomeno è anche maschile) sono vittime di situazioni che non dipendono da loro, ma dai problemi delle famiglie, dalla mentalità maschilista, dalla vita di gruppo in strada, dal consumo di sostanze,…”.

La pastorale carceraria

L’altro tema a cui Riccardo sta dedicando tempo, energie e competenze è la realtà delle carceri, nel ruolo di coordinatore della pastorale carceraria dell’area di La Paz. “Nel 2000 abbiamo aperto il primo carcere minorile in Bolivia. Abbiamo impiegato nove anni per costruirlo, con l’appoggio di varie realtà. Applichiamo un modello di giustizia riparativa, in alternativa al sistema punitivo: ci occupiamo di scuola, laboratori, formazione della polizia, equipe multidisciplinare, tavoli di mediazione prendendo in considerazione le vittime e la comunità. Diamo enfasi anche al tema del post-penitenziario: molte volte i ragazzi quando escono non hanno né famiglia né casa né lavoro. Abbiamo costruito per questo delle casette e dei laboratori, con un’equipe di accoglienza che prepara a reinserirsi nella famiglia e nella società, con un lavoro e all’interno di un contesto sicuro che accompagna e dona una prospettiva nuova”.

Infine, Riccardo è all’opera sul tema della migrazione, in particolare per la vicenda delle donne con bambini e delle famiglie venezuelane. “Il Venezuela sta attraversando una situazione drammatica per la mancanza di lavoro e la disattenzione ai temi sociali del governo totalitario. La Bolivia è un punto di passaggio per il Cile, l’Argentina e l’Uruguay per chi va in cerca di una possibilità di lavoro e di uno stipendio migliore. Alcuni paesi ora chiedono il visto per entrare e molte persone restano ferme in Bolivia: noi abbiamo aperto tre case di accoglienza a El Alto, Santa Cruz e sulla frontiera con il Brasile. Qui diamo l’assistenza basilare e anche l’orientamento legale, facciamo rete con altri enti per aiutare queste persone a vivere in una forma dignitosa”.

Progetti futuri

Insieme a Riccardo Giavarini (che il 5 novembre è ripartito per l’America latina, dopo meno di un
mese di sosta in Italia) lavora oggi un’equipe di 76 persone. Ieri ha incontrato a
Cochabamba i trenta bergamaschi che lavorano in Bolivia (9 preti, 2 vescovi, 8 suore Orsoline di
Somasca e una quindicina di laici), insieme al direttore del Centro missionario don Massimo Rizzi.
A corroborare l’opera di Riccardo è arrivato sabato 23 ottobre il premio del Cuore amico. “Ogni
anno riconoscono un prete, una suora e un laico per la loro esperienza in missione: donano 50 mila euro destinati a un progetto. Noi li utilizzeremo per la ristrutturazione di un centro dedicato alla formazione tecnica per chi viene dal carcere, dalla strada o dallo sfruttamento sessuale. Nel nord della regione di La Paz una professoressa dell’Università Cattolica ha regalato alla diocesi di El Alto 29 ettari di bosco, il Vescovo ha incaricato noi di portare avanti questo progetto. Adesso stiamo ristrutturando una ex azienda, con l’obiettivo di recuperare le culture tradizionali di frutta, caffè e miele e anche la riforestazione: le potenzialità della zona, infatti, sono state abbandonate per dedicarsi solo alla produzione delle foglie di coca. L’obiettivo è il miglioramento del centro di accoglienza e sperimentazione e insieme l’inserimento sociale”.