“La moglie di Dante”. Intervista a Marina Migliavacca Marazza


Nell’anno che celebra i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri e che ha visto un fiorire di libri, saggi e pubblicazioni sul Sommo Poeta, Marina Migliavacca Marazza ha compiuto una scelta controcorrente, scrivendo “La moglie di Dante” (Solferino Libri 2021, Collana “Narratori”, pp. 560, 20,00 euro), facendo uscire Gemma Donati dal cono d’ombra che l’ha oscurata per secoli. Abbiamo intervistato Marina Migliavacca Marazza ex manager editoriale, scrittrice di romanzi, saggi e narrative non fiction, giornalista, specializzata in tematiche di storia, di società e di costume, e che collabora con diverse riviste tra cui “Io Donna”.

Gemma Donati, la moglie di Dante, oscurata dalla passione di Alighieri per Beatrice, ignorata nella “Divina Commedia”, nonché denigrata da Boccaccio. Quindi moglie ombra?

«Sì, per molto tempo. Destino comune a molte altre donne che sono state al fianco di personaggi celebri e delle quali nessuno ha memoria. Rare voci si sono levate nei secoli a ricordare non solo l’esistenza, ma il ruolo chiave di Gemma. Qualche donna, come Carlotta Schloss, che in un suo libro del 1928 edito da Zanichelli dal titolo Dante e il suo secondo amore, ha dato luce al lato familiare e umano di Dante nel suo matrimonio con Gemma Donati, ridimensionando Beatrice (e attirandosi ogni sorta di critica, ovviamente: la cosa più carina che le hanno detto, compreso Rebora, è stato “un libro scritto da una donna”). E più recentemente Giovanni Gigliozzi tentò di delinearne una corretta biografia negli anni Novanta, arrivando a suggerire quasi una identificazione di Gemma in Matelda e citando la Schloss. In realtà le parole malevole del Boccaccio nel suo Trattatello in Laude, cui lei faceva giustamente riferimento, costituiscono un teaser clamoroso e ti fanno venire una gran voglia di capire meglio i fatti, ed è da lì che è nato il mio interesse per quest’altra donna “dimenticata” dalla Storia».

Sappiamo poco sulla vita di Gemma a partire dalla sua esatta data di nascita. Ce ne vuole parlare?

«La data di nascita di Gemma non la si conosce per certa. Molte ipotesi si basavano sul famoso instrumentum dotis del 1277, cioè il documento notarile in base al quale per secoli si è pensato che Dante e Gemma si fossero fidanzati quando lui, del quale conosciamo l’anno di nascita, il 1265, aveva 12 anni (Mi soffermo a far notare che nemmeno di Dante conosciamo il giorno esatto in cui è venuto al mondo, lo deduciamo dalle sue orgogliose dichiarazioni di essere del segno dei Gemelli, combinazione astrale alla quale attribuisce un poco il suo talento…). Tornando a Gemma, una storica francese, la professoressa Isabelle Chabod, ha recentemente contestato la datazione dell’instrumentum dotis, ipotizzando in modo molto convincente un errore di datazione in una copiatura notarile che lo sposta intorno al 1293, e considerandolo un vero e proprio atto di matrimonio. Il professor Barbero, nel suo saggio su Dante dell’ottobre 2020, avalla questa ipotesi. Dante e Gemma si sarebbero sposati dopo la morte di Beatrice, come peraltro ha sempre sostenuto il Boccaccio, quando lui aveva più di 25 anni, e lei aveva probabilmente una decina d’anni di meno. Sappiamo che Gemma morì dopo Dante, tra il 1340 e il 1342. Nella cronologia che metto in fondo al libro, in quelli che in linguaggio paludato si chiamano apparati e io chiamo chiacchierata con i lettori, ipotizzo anche una cronologia, dove situo verosimilmente la nascita di Gemma tra il 1270 e il 1275».

Chi era Corso Donati e che ruolo ebbe nell’esistenza di Gemma?

«Bonaccorso Donati (detto Corso, per questo amore per l’abbreviazione dei nomi che era tipica della Firenze dell’epoca, dove i Durante erano Dante, le Gaetana Tana, i Giacomo Lapo e via dicendo) era cugino di Gemma, la moglie di Dante. Un uomo famoso di cui le cronache del periodo parlano molto, e anche nelle parole dei suoi nemici e detrattori si legge una punta di involontaria e malcelata ammirazione. Lo chiamavano il Barone, era un cavaliere bello come un san Michele, alto, biondo, gran guerriero, ottimo trascinatore di folle, senza scrupoli, convinto del suo buon diritto, ambizioso, orgoglioso, bullo e sbruffone. Fu lui a decidere le sorti della battaglia di Campaldino rischiando la testa quando mandò all’assalto i suoi senza aspettare gli ordini del comandante. Lì c’era anche Dante, in prima fila, tra i feditori a cavallo, a reggere la carica dei cavalieri aretini, avendone prima “grande temenza”, come lui stesso confessò, e poi però grande soddisfazione… Impossibile non paragonare i due uomini: Corso era un po’ più anziano di Dante, di almeno una decina d’anni (anche qui, le date hanno un margine d’incertezza) e tanto diverso da lui da sembrarne l’opposto, nell’aspetto fisico, nel carattere, negli ideali. Se Gemma riuscì a sopravvivere con i suoi figlioli quando diventò una vedova bianca, moglie di un esiliato che si fosse presentato in zona sarebbe stato bruciato vivo, lo dovette anche al buon rapporto con i Donati del ramo più ricco, illustre e influente della famiglia, cioè a Corso. Nella terribile separazione tra famiglie fiorentine, tutte guelfe ma egualmente divise tra neri e bianchi, Gemma si trova strappata e lacerata tra due fronti, perché i Donati militano sul fronte opposto a quello di suo marito, una situazione tremenda, delicatissima, molto dolorosa e oltremodo pericolosa. Ci vuole coraggio, forza interiore, ma anche molta intelligenza e diplomazia per gestire una contingenza del genere, tutelando i figli, mantenendo il contatto col fuoriuscito, sopravvivendo in una società nella quale le donne non possedevano nulla e nello stesso tempo mantenendo la propria dignità».

Come era Dante visto attraverso la sguardo di Gemma?

«Partiamo da un presupposto importante. Dante non era quel nasone bruttino ingrugnato con la schiena curva e coronato d’alloro che ci mostra l’iconografia istituzionale, quando Gemma lo conobbe (e si conoscevano da sempre, perché erano vicini di casa in città e anche in campagna). Era un tipo atletico, capace di usare le armi, andare a cavallo, giostrare, andare a caccia col falcone, dedicarsi a tutte le attività del tipico “cavaliere” del medioevo. Metto le virgolette alla parola cavaliere perché lui non lo diventò mai, cioè non ebbe l’investitura con gli speroni d’oro, ma era un gentiluomo, in grado di ballare, di fare conversazione piacevole, di disegnare bene, colto, poliglotta, elegante, con una bella barba scura e folta, i capelli ricci e gli occhi grandi ed espressivi. E in più aveva il fascino del poeta, dell’uomo di lettere, dell’idealista che voleva fare il meglio per la propria città. Nel mio romanzo Gemma lo vede con occhi innamorati ma anche molto obiettivi: è un uomo del suo tempo, con grandi doti e grandi difetti, con un brutto carattere, un orgoglio smisurato che gli impedirà di tornare a Firenze, molta ostinazione e anche molta ambizione e suscettibilità».

Alla fine della lettura emerge la grande resilienza di Gemma Donati. Qual è stata la grande forza morale di questa donna ingiustamente dimenticata dalla Storia?

«Credo che sia la forza di tutte le donne: la forza dell’amore in senso lato. Per il tuo uomo, per i tuoi figli, per la famiglia, il grande senso di responsabilità e di sacrificio che questo comporta. Gemma è di una famiglia nobile, ha anche lei molto orgoglio. I Donati, da un punto di vista sociale, sono posizionati meglio degli Alighieri, e c’è sotto la fierezza della propria schiatta. Lei è stata coinvolta nelle avventure e nelle disavventure del suo celebre marito e non si è mai persa d’animo, ha lo stesso DNA di quel Corso che si lancia alla carica a Campaldino quando vede che il momento è propizio ben sapendo di disobbedire agli ordini e che questo potrebbe costargli la vita. Anche Gemma, nei vent’anni di vedovanza bianca, ha combattuto la sua battaglia ogni giorno, in una Firenze ostile e sconvolta dalla guerra. Il fatto che sappiamo che Gemma è andata a discutere con i segretari del comune per avere gli interessi sulla dote che le era stata confiscata insieme a tutte le altre proprietà della famiglia negoziando strenuamente la quantità di staia di grano cui aveva diritto la mostra nella luce giusta. Lei fa valere i suoi diritti, a testa alta. Non si vergogna di essere la moglie di un esiliato. Semmai è Firenze che si dovrebbe vergognare di aver trasformato suo marito in un exul immeritus, come lui si firmava da fuoriuscito».

Questo è stato il libro più difficile che io abbia mai scritto”, ha dichiarato alla fine del testo. Quali fonti e documenti ha consultato?

«Ho consultato una marea di saggi, molti anche dell’Ottocento, fino alle scoperte storiografiche più recenti, come quella che citavo della professoressa Chabod. Ho usato come luci nella tenebra delle dispute tra storici, che spesso non sono d’accordo su nulla, due guide: il mio mitico professor Barbero e il grande professor Santagata, il quale è venuto a mancare durante la pandemia proprio mentre io lavoravo accanitamente sui suoi libri. Ho letto tutti i cronisti contemporanei a Dante, per ricostruire nei dettagli i fatti nei quali Gemma fu per forza coinvolta. Ho rispolverato il mio latino, nella sua forma medievale dei documenti notarili, delle sentenze del tribunale che ha condannato Dante, perfino delle liste degli imbandimenti che venivano serviti in tavola. Mi sono immersa nel Boccaccio, nel Sacchetti e ovviamente in Dante stesso, non tanto nella Divina Commedia quanto nella sua saggistica, andando a ritrovare i suoi scritti giovanili, come quel Fiore un po’ osé ispirato al Roman de la Rose che lo mostra nella sua gioventù di uomo e di poeta e che, nella mia finzione romanzesca, lo avvicina a Gemma. Mi sono letta anche tante novelle, tanta narrativa del periodo, composizioni giullaresche e popolari e rime, per riprendere lo spirito e la lingua. E quanto a questo, dato che tra i miei molti difetti c’è anche quello di essere nata nella mia adoratissima Milano, ho chiesto l’aiuto di una accademica della crusca speciale, la mia toscanissima e dottissima amica professoressa Giovanna Frosini, che per me ha sciacquato in Arno pagina per pagina (e non in un Arno qualsiasi, ma nell’Arno di quel periodo lì). Il nostro scopo finale è stato quello di offrire al lettore una lingua familiare, scorrevolissima e comprensibilissima, ma che avesse il gusto e la ricchezza di quel Medioevo splendido e terribile di cui Gemma è protagonista, diventando il simbolo di tutte le donne sue contemporanee».