Don Battista Bettoni e la missione di accompagnare i bergamaschi nel mondo

don Battista Bettoni

Una vita per le missioni. Una vita per i bergamaschi nel mondo. Ad accompagnare e sostenere. Una presenza che ha attraversato numerose pagine di storia e ora si consegna come una testimonianza preziosa.

Don Giambattista Bettoni vive ora a Vigolo, il suo paese natale, e fa servizio in questa parrocchia, oltre che a Parzanica. Ma la sua vita è stata a lungo al di fuori dei confini nazionali.

“Sono partito per la prima volta il 7 gennaio del 1983 – inizia a raccontare -, dopo essere stato curato a Cene, il Vescovo mi chiese di andare a sostituire don Vittorio Consonni, che tornava dal Belgio, a Seraing. Ero andato una prima volta a vedere il posto dopo la proposta del Vescovo e all’inizio del 1983 sono partito”.

Don Battista opera dentro una comunità di vecchia emigrazione. “A Seraing, Leigi e dintorni c’erano molto italiani emigrati quasi subito dopo la Seconda guerra mondiale. Il 26 giugno 1946 tra Belgio e Italia c’è stato un patto secondo cui l’Italia avrebbe mandato 2.500 operai ogni settimana per lavorare nelle miniere di questo distretto, il contratto durava 5 anni, poi uno poteva cercare un altro lavoro”.

In Belgio accanto ai minatori, in una “comunità bergamasca”

Una comunità con circa 25 mila italiani. “Eravamo una comunità ‘bergamasca’, con me c’era un altro prete, don Giuseppe Zambelli, che ora è a Clusone, e quattro suore bergamasche.

La nostra missione era il punto di riferimento per gli italiani, a Liegi c’erano anche tre o quattro altre comunità, tenute in particolare dai francescani. Io sono rimasto lì dal 1983 al 1997, quando la Conferenza Episcopale Belga e quella Italiana mi hanno affidato l’incarico di coordinatore delle missioni di Belgio, Olanda e Lussemburgo.

Con questo incarico ho continuato fino al 2002, poi fino al 2012 si è aggiunto anche il coordinamento delle missioni italiane della Francia. In questi anni ho cercato di tenere i contatti fra i vari sacerdoti e di incontrare i Vescovi locali, di vedere se c’erano situazioni da sostenere e di fare da contatto con l’Italia dato che sono missioni cattoliche (pastoralmente si vive nella chiesa locale)”.

Coordinare ha voluto dire anche tessere fili di unità. “In questo cammino c’erano alcuni momenti forti che abbiamo tenuto in maniera regolare, come i convegni e i momenti di riflessione per i missionari e i pellegrinaggi nazionali, per il Belgio, ma poi anche europei, come quello a Lourdes, dove ci si ritrovava con tutte le comunità italiane”.

Dieci anni nella comunità del Foyer europeo

Negli ultimi dieci anni, invece, don Battista si è dedicato alla comunità del Foyer europeo. “Una realtà nata per intuizione di qualche laico alla nascita dell’Unione europea: l’idea di base è il ritrovo di una comunità europea unita dalla fede. Era sostenuta in particolare dai gesuiti ed è stata un riferimento per gli italiani all’estero, pur senza avere legami con le comunità di vecchia emigrazione. Si trova qui chi si sposta per mobilità più che per emigrazione, per periodi temporanei legati a necessità di lavoro. Dal 2015 io sono diventato il prete della comunità italiana nel Foyer, che continua ad esistere ancora oggi con don Claudio Visconti”.

I ricordi che don Battista conserva ora sono radiosi. “Le comunità italiane all’estero che ho incontrato io e che ho visto a livello più largo come direttore delle missioni sono umanamente molto belle. Gli incontri che si fanno, senza grandi pretese, sono autentici incontri di vita, momenti di festa che permettono a tutti di incontrarsi e parlare, anche solo per una sera, nella propria lingua o nel proprio dialetto, di mangiare un piatto della propria regione e di sentirsi a casa. Ricordo che agli inizi c’era una vitalità forte. Adesso siamo ormai alla terza generazione, che ha perso il legame con l’Italia”.

L’accoglienza dei bambini in attesa di un trapianto

C’è anche un servizio particolare e prezioso che la missione italiana in Belgio ha svolto in passato. “Intorno al 1985 abbiamo accolto dei bambini che dall’Italia si recavano a Bruxelles per il trapianto di fegato. Li abbiamo ospitati in missione perché avevano necessità di essere presenti sul posto per ricevere il trapianto.

Passavano dall’ospedale Umberto I di Brescia, se avevano bisogno di un trapianto, dovevano partire per il Belgio o per gli Stati Uniti. Noi abbiamo avuto 12, 13 bambini ospitati in missione e, oltre all’accoglienza fatta da noi preti e suore, è stato un bellissimo momento di solidarietà. Il primo è stato un bambino bergamasco e attorno a lui si è generata una catena di solidarietà dei bergamaschi in Belgio per aiutarlo a sostenere le spese. Poi è capitata la stessa cosa con un bambino di Brescia e con uno di Napoli”:

E poi c’è quel lavoro costante nel tessere fila di comunità. “Ho un bel ricordo del rapporto con le associazioni regionali, che si trovavano alla missione: si era creato un legame abbastanza stretto. Insieme organizzavamo una festa interregionale, che radunava 15 associazioni nel capannone nel cortile della missione: girava un sacco di gente di tutte le regioni d’Italia.

A Liegi era molto bello anche il rapporto con le istituzioni comunali, sempre presenti quando organizzavamo delle iniziative, pur non essendo cristiani cattolici. 

Grazie soprattutto alla presenza delle suore abbiamo avuto un ponte efficace con le famiglie, in particolare con le mamme migranti grazie all’asilo. 

E infine con la Chiesa locale: le grandi celebrazioni le vivevamo sempre insieme con la parrocchia, in un clima multiculturale”.