Don Marco Perrucchini: tra gli emigrati in Svizzera per prendersi cura di identità e radici

Non c’è niente di più evangelico dell’uscire dalla propria terra e andare in missione, per portare la parola di Dio ad altri popoli, più o meno lontani che siano. Anche oggi, in un periodo nuvoloso, in cui la fede finisce sempre più spesso nelle retrovie, andare in missione è un modo per reagire e provare a svoltare andando all’attacco piuttosto che chiudersi in difesa. Utilizza una metafora “calcistica” Don Marco Perrucchini – nel suo stile semplice, mai banale – per descrivere il ruolo di sacerdote tra gli emigrati.

Uno stile che, del resto, gli ha permesso di destreggiarsi al meglio nelle sue opere fuori da Bergamo. Soprattutto quando, nel 1999, l’allora vescovo di Bergamo, Mons. Roberto Amadei, decise di mandarlo a La Chaux-de-Fonds e Le Locle, in Svizzera dove la chiesa di Bergamo era attiva da diversi anni (dal 1966 per l’esattezza) attraverso servizi pastorali per emigrati.

«Mons. Amadei mi disse di andarci per vivere come un prete Fidei Donum (cioè un sacerdote che si dona temporaneamente ad una causa specifica ndr.). Raccolsi la sfida con determinazione, ma quando arrivai lì mi ritrovai impreparato».

Una società secolarizzata che anticipava i tempi

Il motivo? Per via di una lungimiranza che lo stesso Vescovo aveva avuto a quei tempi e che a non tutti poteva essere subito chiara: «Mi disse – ricorda Don Marco – di andare lì per conoscere una realtà che si sarebbe replicata da noi, a Bergamo e più in generale in Italia, 30-40 anni dopo. Non capii subito, perché mi trovai di fronte ad una situazione molto complessa da decifrare, ma quando tornai a Bergamo mi si schiarì tutto: durante i miei 13 anni di permanenza non incontrai grande fervore tra la gente, i momenti in cui si stringeva di più il legame tra loro e me, in quanto sacerdote, era durante le celebrazioni dei sacramenti, in particolare nei momenti di accompagnamento alla morte.

Lì, credenti e non credenti si rivolgevano spesso a me per una parola di conforto e quello era il momento in cui io potevo portare loro la Verità. Così succede oggi da noi, anche se le nostre comunità sono molto più solide e capaci di mantenere la Chiesa al centro».

Aspettare l’attimo giusto per far emergere la parola di Dio, questa è stata la missione tra gli emigrati, solo in apparenza poco utile e poco accesa, in realtà capace di arrivare al cuore delle persone. 

Lo sforzo di mantenere vive identità e radici

«Non fu comunque semplice – prosegue Don Marco – quella era una comunità di italiani che non aveva intenzione di tornare in Italia come era stato per chi li aveva preceduti. Loro avevano intenzione di mettere le radici lì anche perché tanti erano emigrati di terza generazione e c’erano famiglie con un solo componente italiano tra i due genitori. C’erano delle usanze particolari, ad esempio i più giovani parlavano in francese, ma dichiarandosi italiani. A quel punto bisognava intraprendere un rapporto basato prima sulla lingua da parlare e poi sul fatto di non perdere quelle radici italiane che avevano permesso a quella comunità di aprirsi al mondo e a me, in qualità di sacerdote in missione, di portare qualcosa della Chiesa italiana e ricevere la loro internazionalità».

Un’esperienza di fede, certo ma anche molto culturale, quasi antropologica: «Io credo che quando si parla di costruirsi un’identità – osserva Don Marco – non bisogna guardare solo alle radici, cioè al passato, ma anche a tutto ciò che accade nella propria vita perché anche quello costituisce un elemento fondamentale nel percorso completo di formazione di una persona. Compreso ciò si può pensare di costruire un destino comune e comprendere questo è molto liberante per tutti».

Un destino che deve essere coraggioso, che deve cogliere un’opportunità come quella di una missione lontana da casa, anche per accendere nuove vocazioni.