“L’irrazionalità ha infiltrato il tessuto sociale”: lo dice il rapporto annuale Censis

Roma, 6 maggio 2020: persone con mascherina coronavirus Covid-19 al lavoro per strada - foto SIR/Marco Calvarese

«La situazione è purtroppo grave. Se avessimo un tasso di incidenza di 130 come in Italia o 150, mi sentirei meglio», aveva dichiarato a Berlino solo lo scorso giovedì la cancelliera tedesca uscente Angela Merkel dopo la Conferenza Stato Regioni sul Covid a proposito dell’incidenza dei contagi. Eppure nel nostro Paese, secondo il Rapporto Annuale Censis “L’irrazionalità ha infiltrato il tessuto sociale”, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti di protesta, che quest’anno hanno infiammato le piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive.

Questa è l’Italia fotografata dal Censis (Centro studi investimenti sociali) nel suo 55° Rapporto Annuale sulla situazione del Paese/2021, presentato il 3 dicembre per la seconda volta in diretta streaming a Roma nella sede del Cnel da Massimiliano Valerii, Direttore Generale Censis e presentato in anteprima al Quirinale al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Dopo due anni di Covid, per il 5,9% il virus non esiste

Accanto a quest’onda irrazionale (ha fatto il giro del mondo la tragicomica notizia del dentista no vax di Biella che si è presentato a un centro vaccinale con un finto braccio in silicone, ora denunciato per truffa), che produce un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, vi è una larga maggioranza della popolazione ragionevole e saggia, pensiamo ai tanti italiani, che in questi giorni stanno facendo la fila presso gli hub vaccinali per farsi somministrare la prima dose o il richiamo.

Qualche cifra, che sorprende:

Dopo due anni di Covid, per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni di persone) il virus semplicemente non esiste. Per il 10,9% il vaccino è inutile e inefficace. Per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie. Per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. Dalle tecno-fobie: il 19,9% degli italiani considera il 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone.

Al negazionismo storico-scientifico: il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna. La teoria cospirazionista del “gran rimpiazzamento” ha contagiato il 39,9% degli italiani, certi del pericolo della sostituzione etnica: identità e cultura nazionali spariranno a causa dell’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte opache élite globaliste.

Il gran rifiuto del discorso razionale ha radici nel passato

Da dove viene quest’onda irrazionale? L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società non è solo una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore (Rapporto Censis 2017) al sovranismo psichico (Rapporto Censis 2018), e che ora si evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche.

Ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali, che determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ritorni ridotti in termini di gettito fiscale, cui ne conseguono l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale.

La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali. Infatti, l’81% degli italiani ritiene che oggi è molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio.

Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento.

Per due terzi (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso. Per il 51,2%, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato.

Inquieti pensando al futuro il 69,6% degli italiani

Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020.

Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. L’82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.

Solo il 15,2% degli italiani ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà. La ricchezza complessiva delle famiglie è pari a 9.939 miliardi di euro. Il patrimonio in beni reali ammonta a 6.100 miliardi (il 61,4% del totale), depositi e strumenti finanziari valgono 4.806 miliardi (al netto delle passività finanziarie, pari a 967 miliardi, corrispondono al 38,6% della ricchezza totale). Ma nell’ultimo decennio (2010-2020) il conto patrimoniale degli italiani si è ridotto del 5,3% in termini reali, come esito della caduta del valore dei beni reali (-17,0%), non compensata dalla crescita delle attività finanziarie (+16,2%).

Si è interrotta la corsa verso l’alto delle attività reali

Gli ultimi dieci anni segnano quindi una netta discontinuità rispetto al passato: si è interrotta la corsa verso l’alto delle attività reali che proseguiva spedita dagli anni ’80. La riduzione del patrimonio, esito della diminuzione del reddito lordo delle famiglie (-3,8% in termini reali nel decennio), mostra come si sia indebolita la capacità degli italiani di formare nuova ricchezza.

L’Italia affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia con un handicap: la scarsità di risorse umane su cui fare leva. Il primo fattore critico è l’inverno demografico. Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione del 16,8% delle nascite. Nel 2020 il numero di nati ogni 1.000 abitanti è sceso per la prima volta sotto la soglia dei 7 (6,8), il valore più basso di tutti i Paesi dell’Unione europea (media Ue: 9,1). La popolazione complessiva diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020. Secondo gli scenari di previsione, la popolazione attiva (15-64 anni), pari oggi al 63,8% del totale, scenderà al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050.

Secondo un’indagine del Censis, poco prima della pandemia il 33,1% dei capifamiglia con meno di 45 anni aveva l’intenzione di sposarsi o di convivere e il 29,8% aveva l’intenzione di avere un figlio. Ma soltanto il 26,5% ha continuato a progettare o ha effettivamente intrapreso un matrimonio o una convivenza stabile. In un caso su dieci il progetto originale è stato annullato. La grande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di avere un figlio ha deciso di rinviare (55,3%) o di rinunciare definitivamente al progetto genitoriale (11,1%).

I giovani e le donne alla prova della pandemia

I giovani e le donne alla prova della pandemia. I primi, secondo un’indagine del Censis, ritengono che i gangli del potere decisionale siano in mano alle fasce anziane della popolazione (74,1%).

Le donne occupate, a giugno 2021, nonostante il rimbalzo dell’economia del primo semestre, hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, 9.869.000 nel 2019.

Durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%.

Da questo punto di vista, l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso di attività femminile è pari all’80,3%, e siamo distanti anche da Grecia e Romania, che con il 59,3% ci precedono immediatamente nella graduatoria. La pandemia inoltre ha comportato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per le donne che si sono trovate a dover gestire in casa il doppio carico figli-lavoro.

I risvolti sociali positivi: la riscoperta della solidarietà

Il Rapporto Censis 2021 ha registrato risvolti sociali positivi, come la riscoperta della solidarietà. Un terzo degli italiani ha partecipato a iniziative di solidarietà legate all’emergenza sanitaria, aderendo alle raccolte di fondi per associazioni non profit, per la Protezione civile o a favore degli ospedali. Quasi un terzo di coloro che si sono attivati ha svolto in prima persona attività gratuita in associazioni di volontariato impegnate nella lotta al Covid.

Tiziano Treu, Presidente del Cnel, all’inizio della presentazione del Rapporto ha sostenuto: «Serve progettualità. La spontaneità, caratteristica prettamente italiana, è importante, ma non basta. Questi progetti devono avere una grande ampiezza e essere unitari. Serve coesione, ingrediente essenziale dello sviluppo, che deve essere sostenibile».