Natale, “alla fine è tutto qui il senso pieno del mondo”. Eraldo Affinati racconta “Il Vangelo degli angeli”

“Alla fine è tutto qui il senso pieno del mondo” scrive Eraldo Affinati raccontando il Natale ne “Il Vangelo degli angeli” (HarperCollins) una riscrittura fantastica, personale e lirica, del Vangelo che si snoda in un respiro di 512 pagine, portando con sé l’esperienza umana e la sensibilità del suo autore, insegnante di periferia che ha dedicato la vita agli studenti difficili della “Città dei ragazzi”, giovani di provenienze, lingua, culture e fedi diverse. Il “Vangelo degli angeli” è ispirato alle pagine di  Luca e di Giovanni e agli Atti degli Apostoli ed è nato nel periodo della pandemia. “Rileggendo il Vangelo – spiega lo scrittore – e riscrivendolo ho ritrovato i temi della fraternità ferita, della responsabilità morale, della giustizia negata, della fratellanza. Sono temi universali, perciò ho scritto per tutti, credenti e non credenti”. In questa lettura – rispettosa dell’originale – vibrano la contemporaneità e la freschezza del messaggio del Vangelo, fatto – sempre – per l’uomo.

Lei racconta la nascita di Gesù in un capitolo che chiama “reliquie del futuro”, un titolo che contiene già un invito a mettersi nei panni di Maria e a meditare su “questi eventi straordinari”: una coppia che trova rifugio in una stalla, la nascita di un bambino, eppure “alla fine è tutto qui il senso pieno del mondo”. Come è stato per lei rileggere questa parte del Vangelo?

“Mentre riscrivevo il mio Natale, seguendo il solco di Luca, mi passavano davanti agli occhi alcune ragazze africane, alle quali insegniamo la lingua italiana nelle scuole Penny Wirton, costrette a partorire durante il viaggio verso di noi: con la differenza che loro non hanno accanto Giuseppe e non sanno neppure con esattezza chi sia il padre del bambino che stringono fra le braccia. Ma, nonostante questa attualizzazione, sono rimasto ligio al Vangelo, anche se forse sulla pagina posso aver lasciato una traccia fantastica della mia esperienza come insegnante agli immigrati.”

Come mai ha scelto di scrivere “Il Vangelo degli angeli”, da dove nasce il punto di vista che ha scelto e quanto questo suo lavoro ha a che fare con la fede o con un percorso di ricerca spirituale? Come ha lavorato, quale traccia, incontri e letture ha seguito?


“Ho riletto Luca e Giovanni, soprattutto, ma anche gli Atti degli apostoli, come se avessi di fronte I fratelli Karamazov di Dostoevskij, che rappresenta una delle sue moderne emanazioni. Cioè l’ho fatto frontalmente, quasi fosse la prima volta, per ritrovare, dentro di me, lo stupore e il desiderio di riviverlo nella scrittura. La chiave angelica mi ha garantito grande libertà operativa per sciogliere i nodi che più mi attirano: primo fra tutti, il libero arbitrio. I miei cherubini, addestrati nelle stazioni orbitali, non possono intervenire troppo per non compromettere l’azione dell’uomo. Però si emozionano, commettono piccoli errori, ciò li rende simili a noi. In questo libro ci sono dentro tutti gli altri che ho composto: di sicuro quelli su don Lorenzo Milani e Dietrich Bonhoeffer, ma in fondo anche Lacittà dei ragazzi Vita di vita, per citare qualche titolo. I temi sono sempre gli stessi: la paternità putativa, la giustizia divina e quella terrena, il male umano, la responsabilità, la ricerca di una fede in grado di dare senso al mondo. Ho lavorato molto sullo stile per renderlo cristallino: è una prosa poetica di cinquecento pagine. In letteratura il contenuto resta importante, ma la forma va considerata imprescindibile.”

Descrive Giovanni Battista come “un ragazzo ribelle”, uno di quelli che appaiono scontrosi e in guerra col mondo, al punto da suscitare perplessità sul loro futuro: “Chissà che fine farà” dicono di lui. Nel tratteggiare questo personaggio le è venuto in mente qualcuno dei ragazzi che ha incontrato nel suo percorso di insegnante ed educatore? È un invito a posare uno sguardo diverso anche sui “ragazzi difficili” di oggi?


“Sì, è così, e mi fa piacere che lei lo abbia sottolineato. I cosiddetti ragazzi ribelli, ai quali ho dedicato Elogio del ripetente, sono il mio pane quotidiano, quelli che paradossalmente, alla lunga, mi danno maggiori soddisfazioni. Un tempo erano i giovani degli istituti professionali per l’industria e l’artigianato a cui ho insegnato lettere per tanti anni. Oggi potrebbero essere certi adolescenti egiziani o albanesi troppo irrequieti per stare fermi dietro al banco di scuola due o più ore. Nella descrizione di Giovanni Battista mi sono ricordato di loro: ad esempio quando insulta una guardia romana, rischiando di finire ucciso. Ma poi sul Giordano, di fronte al Nazareno, abbassa il capo mansueto.”

Quando parla di Gesù e dei suoi discepoli in un capitolo del libro pone la domanda “Come bisogna vivere?”. Uno degli aspetti che emergono con più forza dallo sguardo dei discepoli è la cura: “Tu mi interessi, capito? E io, dimmi, sono importante per te? Ci siamo conosciuti e d’ora in poi non ci perderemo, dovremo prenderci cura l’uno dell’altro”. In questa sua lettura risuona una forte componente di attualità e di freschezza del messaggio cristiano, che si ritrova anche nelle parole di Papa Francesco “nessuno si salva da solo”. Che cosa ne pensa? Che ruolo ha questo aspetto nella sua ricerca, a che punto l’ha trovato?


“Sono partito dallo sguardo che Gesù rivolge a Simone, sul lago di Tiberiade. Il maestro posa gli occhi sul pescatore e lo trascina con sé: da quel momento in poi i due amici, pur attraversando la crisi capitale del tradimento, non si lasceranno più. Se noi riuscissimo a comprendere la forza e la qualità di quel primo approccio, avremmo chiara la rivoluzione del cristianesimo. In fondo il mio libro vuole sviscerare questo aspetto: ogni incontro umano dovrebbe essere sacro, assoluto, non strumentale. Proprio come quello fra docente e scolaro. Io provo questa sensazione quando insegno: ho voluto attribuire valore fondativo a tale sentimento.”

La “fraternità ferita”: Gesù nel suo “Vangelo” dice “Sarà quello il momento in cui in cui mi troverò più vicino a voi: quando toccherò con mano, io sì, la vostra incapacità di stare uniti nel segno del mio nome. Lo stesso del Padre”. Anche qui si sentono riecheggiare le parole della “Fratelli tutti” di Papa Francesco, che richiama l’attenzione sulle “fraternità ferite” di oggi. È un’esperienza che trascende la dimensione religiosa e arriva alle radici dell’essere umano. Lei la vive e l’ha vissuta da un punto di vista particolare come “insegnante di periferia”. Questo ha influenzato il modo in cui la rielabora e la racconta in questo libro?


“Affrontare il dolore della ferita causata dalla divisione fra gli esseri umani è il compito essenziale che attende ognuno di noi: papa Francesco lo ha sempre saputo, sin da quando a Buenos Aires esortava i suoi fedeli ad abbracciarsi superando le incomprensioni: bisogna saltare il fossato che ci separa, la pandemia dovrebbe avercelo insegnato, anche se ci sembra molto difficile, quasi proibitivo. Questa è la ragione per cui nel mio libro ho dato spazio alla crisi dell’angelo custode di Giuda, una figura che mi ha sempre interessato, sin dal tempo di Campo del sangue, in cui raccontavo il mio viaggio ad Auschwitz.”