Mons. Ruffinoni: un ponte ideale fra Italia e Brasile, in memoria di Carlo Acutis

È rimasto in Italia giusto un mese, monsignor Alessandro Carmelo Ruffinoni. Quattro settimane che, però, sono bastate per gettare le fondamenta di un ponte ideale fra Italia e Brasile, in memoria di Carlo Acutis, lo studente morto nel 2006, a soli 15 anni, a causa di una leucemia fulminante e proclamato beato, nell’ottobre del 2020, da papa Francesco. Un fatto non scontato, anche perché, causa pandemia, non è stato semplice, per il religioso, tornare, dall’America latina, in Lombardia. Ma padre Carmelo (come è conosciuto a Piazza Brembana, suo paese natale), 78 anni, già vescovo ausiliare di Porto Alegre e ora vescovo emerito di Caxias do Sul, sa bene come coniugare l’entusiasmo latinoamericano con la tenacia orobica, in modo da non farsi scoraggiare dagli eventi. 

Monsignor Ruffinoni, quando ha avuto modo di conoscere la figura e la storia di Carlo Acutis?

«Durante il lockdown ho letto molto e ho scoperto la storia di questo ragazzo: mi ha davvero colpito e mi sono entusiasmato. Mi sono informato e documentato sulla sua vita, soprattutto via web, e a Farroupilha, presso il santuario di Nossa Senhora de Caravaggio, ho voluto poi riproporre la “Mostra dei miracoli eucaristici”, quella che lui aveva elaborato virtualmente, tramite pc. La mostra ospita 180 pannelli ed è arricchita da diverse foto di Carlo, accompagnate da alcune sue frasi. Il santuario è meta, ogni anno, di un gran numero di pellegrini e fedeli. L’intento, quindi, non è solo quello di attrarre i bambini della Prima comunione e della cresima, facendo capire loro cosa sia l’Eucarestia e rendendoli partecipi dei miracoli ad essa legati, bensì tenere viva la memoria di Carlo Acutis, affinché un numero sempre maggiore di persone possano conoscere questo straordinario ragazzo».

Sabato 4 dicembre, ha avuto la possibilità di incontrare anche la mamma di Carlo Acutis

«Una catechista di Caravaggio (paese dove risiede una parte dei miei familiari), mi ha segnalato che la madre di Carlo Acutis, Antonia Salzano, sarebbe stata a Milano per la presentazione del suo libro (“Il segreto di mio figlio”); ho chiesto agli organizzatori se c’era la possibilità di parlare con lei, che mi sarebbe piaciuto avere una reliquia del beato. Dopo che ho ricevuto il consenso dalla segreteria, mi sono recato a Milano. Antonia Salzano mi ha portato in dono alcune foto del figlio e un ciuffo dei suoi capelli, una reliquia preziosissima. È stato davvero un bell’incontro, pieno di gioia e di speranza». 

Un incontro che, causa burocrazia, avrebbe potuto non avvenire

«Lo scorso agosto, tramite il consolato italiano, mi sono informato su quali documenti dovessi compilare per tornare in Italia. Mi hanno indicato le modalità per inoltrare la domanda ma, per ben tre volte, non ho ricevuto risposta. Non riuscivo a tornare a casa. Mi è stato poi riferito come il metodo corretto per inviare la richiesta fosse un altro. Alla fine, ho inviato, per la quarta volta, la domanda e, senza aspettare il permesso, sono partito. Arrivato all’aeroporto, però, mi è stato riferito come il mio test molecolare sarebbe scaduto durante il viaggio. Fortunatamente, ero arrivato con tre ore di anticipo e ho avuto il tempo di recarmi in farmacia e fare l’antigenico. Il 12 novembre sono atterrato a Malpensa. Credo che tutto sia filato liscio soprattutto perché, quando mi sono messo in viaggio, l’Italia aveva aperto le porte ai cittadini italiani che vivono in Brasile».

Come ha vissuto il dramma che, a marzo 2020, ha scosso Bergamo? 

«Dopo che, per raggiunti limiti d’età, ho dato le mie dimissioni come vescovo di Caxias do Sul, mi sono recato in Paraguay, nazione che conosco bene perché, quando ero giovane sacerdote scalabriniano, vi ho trascorso dieci anni della mia vita. Anche in Paraguay, a marzo 2020, hanno decretato il lockdown e quindi sono rimasto bloccato per un anno in questo Paese, seguendo, via telegiornali e via Facebook, le sconcertanti notizie che giungevano da Bergamo. L’immagine dei camion che portavano via le bare è stata davvero straziante. Ho sofferto molto e ho cercato di stare vicino ai bergamaschi con la preghiera. Fortunatamente, nessuno dei miei familiari (né di Caravaggio, né di Piazza Brembana, né di Averara) è venuto a mancare. Mi è capitato di ascoltare la canzone “Rinascerò, rinascerai” di Roby Facchinetti: molto bella. Spero possa essere di buon auspicio per una ripresa autentica, sia in Italia che nel mondo».

Come ha affrontato il Brasile la pandemia? Come è la situazione ora? 

«Come ormai tutti sanno, all’inizio nel peggiore dei modi possibili. Lo stesso presidente, Jair Bolsonaro, non credeva alla pericolosità del virus e successivamente, cosa ancor più scandalosa, non voleva nemmeno vaccinarsi. Ora, dopo tutti i morti che ci sono stati e le tante fosse comuni, la situazione va un po’ meglio. Grazie al vaccino (da principio, importato dalla Cina) e agli ottimi istituti Fiocruz e Butantan, più del 60% della gente è vaccinata con seconda dose. Certo, la situazione non è ancora rosea e i morti sono ancora tanti, ma non ce ne sono più 1500 al giorno come prima. Io ho già fatto la terza dose».

Anche in Brasile fioriscono le fake news?

Sì, basta aprire il cellulare e ne leggi di ogni colore. Io mi sono stancato e non leggo più nulla. Ti sale il nervoso e ne esci matto… Questa controinformazione tossica è davvero grave. Fortunatamente, i principali telegiornali brasiliani stanno insistendo molto sull’importanza della vaccinazione.

Come giudica Bolsonaro e il suo governo?

«Non amo troppo le dichiarazioni politiche: si è preti di tutti e si rischia di rovinare il lavoro pastorale che si sta facendo. Certo è che Bolsonaro parla troppo e il Brasile è diviso. La tensione fra nativi e grandi latifondisti, fra sinistra e destra, è davvero alta: il governo dovrebbe fare una legge che delimiti una volta per tutte i confini, ma è tutto molto complesso e delicato. Il prossimo anno inizierà la corsa per il nuovo presidente. Non so come andrà a finire, ma sarà sicuramente uno scontro duro». 

La Chiesa è rispettata in America latina o ha da temere qualcosa?

«Più o meno. Sicuramente la Chiesa non ha paura di parlare e, quando necessario, di picchiare duro. Molti l’accusano di essere comunista. Questo perché difende i nativi, i poveri e tutti coloro che, venendo dalle periferie, non hanno i mezzi e le strutture per vivere meglio. La Chiesa si è fatta e continuamente si fa sentire contro lo sfruttamento indiscriminato della foresta amazzonica, contro gli incendi. L’ultra destra, spesso rappresentata dai grandi latifondisti, insulta i preti, definendoli “pedofili”: vorrebbe chiuder loro la bocca. Ma la Chiesa tira dritta e continua a parlare. Sicuramente le vocazioni sono calate e i cattolici, in molte aree, non sono più la maggioranza. Da tempo, ormai, stanno prendendo prepotentemente piede le sette pentecostali che, con il loro “vangelo della prosperità” (che promette salute, benessere e ricchezza), riscuotono la simpatia della classe dirigente e del governo attuale, riuscendo ad attecchire nelle periferie dimenticate. A tal proposito, credo che uno dei problemi della Chiesa cattolica in Brasile sia l’incapacità di formare l’establishment politico che, sempre più spesso, è di matrice protestante».

L’America latina è ancora il “cortile di casa” degli Stati Uniti?

«Gli Stati Uniti hanno ancora forti interessi in America latina e la tengono sott’occhio. Da essa importano molto, soprattutto carne e grano. Lula si era un po’ svincolato da Washington, Bolsonaro si è riavvicinato».

Di cosa il Brasile e l’America latina avrebbero bisogno?

«Di più giustizia sociale. Di una maggior ridistribuzione dei beni e della ricchezza. Di più sicurezza, penso soprattutto ai contadini, agli operai e ai nativi in generale. In Brasile, ci sono 16 milioni di persone senza lavoro. Lo stato elargisce un sussidio alle famiglie per non lasciarle morire di fame. È un bel gesto, ma non risolve il problema. La soluzione sarebbe creare lavoro».

Cosa può insegnare il Brasile all’Europa? 

«Il popolo brasiliano è un popolo allegro, accogliente e di grande volontà. Ha inoltre un profondo senso religioso, non necessariamente cristiano. Un “pensiero a Dio” che in Europa manca». 

Come vede il suo futuro?

«Fin che c’è la salute, meglio che lavori, se no divento vecchio prima del tempo (ride, ndr). L’unico dubbio è se ritornare in diocesi o dalla mia famiglia religiosa, quella scalabriniana. Magari, quando non mi sentirò più in forza, mi ritirerò in una delle case della congregazione, a Arco o a Bassano del Grappa. L’idea di tornare in Italia c’è, ma non subito, anche perché vivo in America latina da cinquant’anni e ci sto bene».