Viaggi, turismo, migrazioni: “Neanche il virus può fermare l’umanità in movimento”

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Paese che vai, italiano che trovi. Siamo un popolo di grandi viaggiatori, nessuno può negarlo. Fin dai tempi di Cristoforo Colombo una curiosità innata ci spinge a partire, desiderosi di viaggiare e bramosi di conoscere un mondo nuovo. Per diporto, per trovare lavoro o per esplorare nuovi orizzonti. Poi un brutto giorno, un virus si è messo a circolare velocemente nel Pianeta e siamo stati costretti a fermarci, perché la pandemia da Sars-CoV-2 “ha cominciato a viaggiare al nostro posto e ha continuato a farlo nonostante avessimo fermato quasi del tutto i nostri mezzi di trasporto”. Ma neanche il virus prossimo venturo ci fermerà. Ne è convinto Stefano Allievi nel libro “Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento” (UTET 2021, Collana “Dialoghi sull’uomo”, pp. 224, euro 14,00), dove l’autore affronta un tema di stringente attualità. 

Stefano Allievi, ordinario di Sociologia presso l’Università di Padova, mette al centro del suo saggio la mobilità, che la pandemia ci ha sottratto durante il lockdown, cercando di risolvere una questione importante: come gestire e convivere con la mobilità nostra, e quella degli altri. 

Abbiamo intervistato il Prof Allievi, esperto di fenomeni migratori e pluralismo religioso, con particolare riferimento all’Islam, membro di comitati scientifici di istituzioni e riviste, e del Consiglio per l’Islam italiano presso il Ministero dell’Interno. 

Professor Allievi, nel saggio scrive che siamo nati nomadi e lo siamo stati per gran parte della nostra storia. Quando invece siamo diventati stanziali? 

«Siamo diventati stanziali quando abbiamo inventato l’agricoltura e le città, quindi con quella che si chiama “rivoluzione neolitica” e l’urbanizzazione. In realtà siamo stati apparentemente stanziali, perché nelle città noi credevamo che ci si nascesse, ma fin dal primissimo censimento della storia d’Italia, si era scoperto con sorpresa che più della metà degli abitanti delle città non era nato in città. Erano figli nati da immigrati provenienti dalle campagne. Negli ultimi anni abbiamo avuto una inversione: siamo tornati nomadi per motivi tecnici. Perché viaggiare non è mai stato così facile, così economico e così sicuro. Pensiamo al turismo, agli eventi internazionali. Il turismo cresceva ogni anno fino al Covid–19 più velocemente del commercio internazionale. Addirittura più ancora delle merci. Inoltre sempre più persone sono uscite dalla povertà che lega a un territorio molto di più di quanto accada quando si hanno risorse, che consentono, se si ha voglia, di muoversi». 

I giovani expat che lasciano l’Italia, sono oggi in numero superiore agli immigrati a testimoniare una circolarità globale che riguarda tutti i Paesi? 

«Se noi dicessimo alla maggior parte delle persone che incontriamo per strada che i giovani che lasciano l’Italia, sono oggi in numero superiore agli immigrati, direbbero che questa è una bugia. La maggior parte degli italiani non lo sa e questo è significativo, perché è un’enfasi continua sugli sbarchi, per esempio, che tra l’altro sono a loro volta una minoranza rispetto alle immigrazioni. Non si parla mai degli emigranti, perché questo farebbe crollare tutta la retorica dell’“invasione”, semmai nel nostro Paese è in corso un’evasione, perché abbiamo più morti che nati e più emigranti che immigrati. È interessante e drammatica l’inconsapevolezza che il Paese ha di questa cosa, forse anche perché una volta si diceva che “chi emigra vota con i piedi”, cioè dà un voto negativo sul suo paese di origine e se ne va. Io gli emigranti li incontro, soprattutto quelli più giovani, e so che di fatto è questo. Cioè si tratta, certamente della ricerca di opportunità altrove, di un salario più alto, di un welfare più protettivo, ecc.., ma vuol dire anche che c’è qualcosa o molto che non funziona nel paese di origine. Tra l’altro i nostri emigrati hanno un livello di istruzione molto più alto di chi rimane, quindi ciò vuol dire che prima li formiamo bene e hanno successo quando vanno a fare master all’estero, scegliendo però di rimanere all’estero. Chi ha più possibilità di scelta e di maturare delle scelte consapevoli e critiche, va via in percentuale maggiore. Quello che dovremmo imparare a capire è che l’emigrazione, l’immigrazione, il turismo, il commercio delle merci, il mercato globale, sono tutte parti di uno stesso fenomeno». 

Perché spesso ci troviamo a oscillare verso una spinta all’erranza, e qui il pensiero va all’esergo del volume: “Ode alla migrazione degli uccelli” di Pablo Neruda (1) e verso il suo contrario, la stanzialità, spesso vivendo entrambi questi due poli opposti? 

«Perché sono due poli entrambi interessanti, come l’esteriorità e l’interiorità. C’è chi sceglie radicalmente uno dei due e c’è chi pendola tutta la vita tra l’uno e l’altro. Sono due fenomeni che vanno letti insieme. Spesso l’enfasi di noi sociologi è sulla mobilità, perché la vediamo, è più interessante, coinvolge chi vive in un contesto metropolitano. Però è interessante sottolineare che c’è anche il resto. Sono due tendenze diverse che spesso fanno parte della stessa biografia. Capita che una persona per un periodo della sua vita viaggia e poi si ferma da qualche parte e non è necessariamente la casa in cui è nato. E’ importante riflettere su chi rimane perché in un certo senso sono figli delle stesse dinamiche, alle volte hanno le stesse nostalgie. La parola “nostalgia” per i migranti viene spesso utilizzata come una forma di disagio psicologico. Ma c’è anche chi ha nostalgia per quello che non ha fatto, per le occasioni perse. L’erranza e la stanzialità sono legati anche perché –  come succede spesso nelle immigrazioni – chi va via aiuta chi è rimasto a mantenersi, a vivere. Quindi c’è una circolarità anche in questo senso. Le emigrazioni fanno parte del paesaggio della stanzialità e il mondo di chi rimane fa parte di chi si muove, quindi della mobilità». 

Shut-in economy: cos’è e perché ne sentiremo parlare sempre di più? 

«Era iniziata quasi come un gioco per ricchi: si può avere il mondo a casa, rimanendo a casa, basta usare la carta di credito, con la quale si può acquistare qualunque cosa, compreso esplorare mondi, ordinare cibi e vedere film. Quindi far girare l’economia stando a casa. Tutto ciò con la pandemia è diventato quasi una necessità, un obbligo. Fin dall’inizio alcuni studiosi più lungimiranti avevano predetto già dal primo lockdown che avremmo avuto da quel momento in avanti per alcuni anni, non sappiamo ancora quanti, fino a quando questo virus non sarà debellato, continue aperture e chiusure. Come stiamo vedendo in questi giorni, limiti autoimposti alla libertà per poi ripartire appena possibile tutti quanti. Queste continue aperture e chiusure per ora le viviamo come una vera e propria patologia, ma potrebbero diventare una nuova fisiologia che ha bisogno di elasticità. Esempio: chi viveva di ristorazione ha iniziato a fare il delivery, la consegna a domicilio. Ma questo vale per tantissimi altri mestieri. Il virus ci ha insegnato a convivere con tutto questo, queste chiusure e aperture sono anche una opportunità. Una enorme tragedia e un problema per molti, per molti altri un’opportunità. Pensiamo allo “smart working”, il lavoro agile da casa che abolisce l’orario di lavoro e consente di lavorare da remoto, sperando in un’ottima connessione, dalla montagna, dal mare o da un’isola del Pacifico, anche se non si cancellerà il lavoro in presenza». 

Nel testo precisa che “Le frontiere non sono muri, sono modi per controllare i passaggi”. Governare le migrazioni si può, emblematico il paragrafo “Se fossi ministro… ”, anche se mette in luce la responsabilità che hanno i media nel raccontare l’immigrazione? 

«Sulle frontiere c’è un’idea distorta che sta prendendo sempre più piede in questi anni, non servono muri, abbiamo bisogno di governare le immigrazioni per poterle controllare. È giusto sapere chi viene e da dove viene, chi è dove va. Se non lo facciamo, e qui penso al paragrafo “Se fossi ministro”, non possiamo governare le immigrazioni. Quello che è successo nei paesi europei e in Italia in maniera particolare è stato che abbiamo smesso di governare le immigrazioni. Gli Stati, su richiesta delle pubbliche opinioni che dicevano: “Non vogliamo più stranieri”, hanno smesso di gestire e di dare dei visti  “regalando”, per così dire, la gestione del fenomeno alle mafie internazionali. Questa è una follia: se non abbiamo immigrazione regolare, è evidente che avremo una immigrazione irregolare, che non piace a noi e ancora meno agli immigrati che la praticano perché rischiano di morire, portando con loro dolore, torture, violenze. La gente non sa che un immigrato che proviene dall’Africa Centrale o dal Pakistan per arrivare in Europa ci mette mediamente un anno e mezzo. L’immigrazione non è un problema, è solo da governare, ripeto, prendere sul serio il fenomeno e analizzarlo. Non è un problema se abbiamo in Italia i lavoratori stranieri, se non li avessimo avremmo meno ricchezza, meno lavoro e meno aziende, senza operai saltano anche gli impiegati e i dirigenti. Per questo ho voluto inserire nel saggio il paragrafo “Se fossi ministro”. Le soluzioni ci sono e sono di buon senso, pragmatiche e non ideologiche. Nel saggio le elenco. Usare l’intelligenza e non gli slogan. Immaginiamo se trattassimo solo a slogan la questione della Sanità, dell’istruzione e del pensionamento. Saremmo falliti. Purtroppo sull’immigrazione stiamo fallendo perché non la gestiamo». 

È vero che il Covid-19 ci ha illuminati sul nostro stesso rapporto con l’alterità, con l’estraneità e la diversità? 

«Direi di sì, perché ci ha fatto riflettere sulla mobilità, perché per un certo periodo ce l’ha tolta. Il virus si è messo a circolare al posto nostro. Abbiamo dovuto anche chiudere le relazioni affettive più strette, nipoti che non hanno più visto i nonni. Questo da un lato ci ha fatto capire l’importanza delle relazioni, ma anche l’importanza delle relazioni con gli sconosciuti e con un mondo sconosciuto. Cosa ci spinge verso l’altrove? E’ il desiderio di capire e di scoprire, forse perché stiamo recuperando il fatto che capire e scoprire è un pezzo importante dell’essere umani. Noi vogliamo capire e scoprire e comparare, vedere come vivono altri che è la prima forma di conoscenza. Non a caso persino nel mondo greco, che si considerava il migliore dei mondi possibili, rispettava e ascoltava gli stranieri. Questa tendenza a considerarsi il migliore dei mondi possibili la abbiamo anche noi, ma il confronto con culture straniere è fondamentale. Non possiamo pretendere la libertà di movimento per noi e impedirla a qualcun altro, che è quello che sta accadendo». 

(1) Passano gli uccelli, come l’amore, cercando fuoco, volando via dall’abbandono verso la luce e le germinazioni, uniti nel volo della vita, e sulla linea e le schiume della costa gli uccelli che cambiano pianeta colmano il mare del loro silenzio d’ali. “Ode alla migrazione degli uccelli”. Pablo Neruda