Chiesa e missione. Dieci domande su scuola e disabilità. Risponde Walter Negrinotti dalla Costa d’Avorio

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Dal cuore della missione diocesana in Costa d’Avorio, questo mese il tema della rubrica “Dieci domande” realizzata in collaborazione con il Centro missionario diocesano di Bergamo, è il rapporto tra scuola e disabilità. Ne parliamo con Walter Negrinotti, 45 anni, originario di Endine Gaiano, educatore e missionario laico in Costa d’Avorio da circa due anni.

  1. Walter, da Bergamo alla Costa d’Avorio. Come è nata questa storia di missione?

In bergamasca ero educatore nelle scuole e ho lavorato con ragazzi con disabilità. Parallelamente ho vissuto alcune esperienze di missione lontano da casa con brevi esperienze in Congo e in Malawi nel 2018. Questo mi ha portato a mettermi in discussione, a pormi delle domande. La partenza per la Costa d’Avorio prevedeva sei mesi di permanenza che ho chiesto diventasse di un anno e questo è stato ulteriormente prolungato. Ora sono qui dall’ottobre del 2019.

  1. Questo tempo che cosa le ha permesso di capire?

C’è un tempo iniziale in cui si inizia a percorrere un cammino e si prende confidenza con il luogo, con la lingua e con la cultura. E’ il tempo necessario per iniziare a capire dove si è e questo lo si può fare solo con l’ascolto e l’attenzione alle persone che si incontrano. Con il tempo ho sentito che la passione per la missione cresceva.

  1. Ci sono stati incontri decisivi?

Sicuramente quelli con i bambini e le famiglie con cui vivo le mie giornate. Ho conosciuto il Centro di riabilitazione e fisioterapia condotto dalle Suore del Sacro Cuore di Bergamo. Lì c’è stato l’incontro con la disabilità, che non era per me cosa nuova, vista l’esperienza nelle scuole in Italia, ma che in Costa d’Avorio assumeva contorni del tutto diversi.

  1. Quanto è faticosa lì la vita di un bambino con disabilità?

La prima parola che riesco ad associare a questa condizione è purtroppo emarginazione. Le credenze culturali, soprattutto nei villaggi, portano a considerare una persona colpita da disabilità come una sorta di maledizione per la famiglia, qualcosa da nascondere e di cui vergognarsi. Si arriva persino a desiderarne la morte per sfuggire a quella che viene considerata una vera e propria disgrazia per tutta la famiglia.

  1. Che cosa ha intuito si potesse fare?

I bisogni primari erano la vicinanza e la creazione di spazi e tempi in cui poter non solo curare, ma anche valorizzare questi ragazzi. Conoscere le famiglie e capire i loro bisogni ha aiutato a definire un progetto che ha portato alla creazione di uno spazio diurno nella missione di Agnibilekrou dove accogliamo bambini e ragazzi. 

  1. Cosa si propone?

Nei pomeriggi si svolgono attività in piccoli gruppi secondo l’età che va dai 3 ai 22 anni. Ci sono zone di gioco e di relax. Ci si approccia alla scrittura, si impara a tagliare, a giocare con gli incastri, a stimolare la motricità fine. Soprattutto si trascorre del tempo insieme in serenità.

  1. Le famiglie hanno accolto favorevolmente questa proposta?

Posso dire che vedo uno sguardo nuovo. Le mamme che li accompagnano allo spazio diurno riconoscono le potenzialità dei loro figli. Hanno anche la possibilità di lasciarli alla missione per l’attività  e trovare un po’ di tempo di sollievo. Con le mamme si instaura una relazione di fiducia e per loro vedere che qualcuno si occupa dei loro figli senza nessuno sguardo giudicante apre alla speranza. 

  1. Qual è il rapporto con la scuola?

Questa è una grande sfida. I bambini con disabilità non vengono mandati a scuola e ci siamo presi a cuore questa cosa. Ora ci sono due bimbi inseriti nella scuola materna con due giovani ivoriane che li accompagnano come assistenti educatrici. E’ una cosa del tutto nuova che apre sicuramente a un orizzonte nuovo. 

  1. Uscendo dal cerchio familiare, viene riconosciuta e apprezzata dalla società ivoriana questa attenzione verso i ragazzi con disabilità?

Per chi frequenta la missione la loro presenza è diventata familiare. Invece camminare per la strada stringendo la mano di un bimbo con disabilità suscita spesso molta curiosità, sicuramente interpella, ma il bagaglio culturale è forte e pesante. C’è ancora molto da fare. E’ importante che il progetto abbia continuità nel tempo e questa prospettiva richiede un processo di cambiamento culturale. Il limite sta proprio nella difficoltà di far crescere progetti lungimiranti che guardino al futuro. Spesso si percepisce che la visione è quella che “la vita è oggi”. Si fatica a guardare al domani. E’ un popolo che si porta dentro una storia difficile e che spesso si rifugia nella rassegnazione. Il mio desiderio, quando me ne andrò, è quello di poter lasciare qualcosa capace di continuare a fiorire, soprattutto sul fronte della scuola.

  1. Se dovesse regalarci un’immagine che rappresenta quello che ci ha raccontato, cosa sceglierebbe?

Se chiudo gli occhi li ho davanti tutti, bambini, ragazzi, mamme. Vedo i momenti di festa, quelli in cui non ci sono distanze e si contempla una bellezza infinita. Penso a un’Africa del domani in cui i bambini e i giovani sono protagonisti e sono la forza e la bellezza di questa terra. Scopro ogni giorno che è facile far nascere un sorriso e costruire insieme un mondo libero, sganciato dal peso del passato.