La guerra e i bambini. Alberto Pellai: “Meglio parlare che mostrare. Proteggiamoli dalle immagini dei telegiornali”

La vita accade di Pellai

“Ci sono cose da fare di notte: chiudere gli occhi, dormire, avere sogni da sognare, orecchie da non sentire. Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio la guerra”.

La frase di Gianni Rodari appare tragicamente attuale. Infatti, il conflitto in Ucraina, così vicino a noi, ha fatto entrare nelle nostre case immagini di morte, dolore e devastazione, che hanno sconvolto noi adulti e hanno messo in luce la nostra impotenza. Ma come spiegare la guerra ai nostri bambini senza allarmarli, permettendo loro di capire qualcosa? 

Lo chiarisce Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Milano, al quale nel 2004 il Ministero della Salute ha conferito la medaglia d’argento al merito della Sanità pubblica.

Autore di molti bestseller di parenting e psicologia, ha appena pubblicato il romanzo “La vita accade” (Mondadori 2022, Collana “Strade blu”, pp. 204, 18,50 euro), “Una storia che fa luce sulle emozioni maschili”, come recita il sottotitolo del testo. 

  • Prof Pellai, i telegiornali fanno vedere come l’Italia intera si stia mobilitando per dare solidarietà e sostegno concreto all’Ucraina invasa il 24 febbraio scorso dalla Russia, che ha scatenato al suo interno una guerra ancora in corso a tutto campo. È utile mostrare queste immagini ai piccoli telespettatori per tranquillizzarli? 

«No, le immagini di un conflitto mettono in agitazione  i bambini, soprattutto i piccolissimi, perché le immagini di guerra fanno vedere distruzione, morte e violenza. Fanno vedere mamme e bambini in fuga come sta accadendo ora in Ucraina. Tutto questo fa un attentato all’alfabeto della sicurezza emotiva dei bambini. Quindi è molto meglio parlare che mostrare. Ha senso anche dire ai bambini che la paura della guerra che sentono ce l’hanno un po’ tutti, ma poi diventa molto utile anche rassicurare e tranquillizzare. Dire loro che qui dove siamo noi è un territorio dove vengono i bambini, perché qui si sentono protetti e al sicuro e che noi faremo di tutto per aiutarli». 

  • Parlare con i bambini delle guerre ed emergenze umanitarie che vedono in televisione è utile per aiutarli a gestire la paura? 

«Parlare è sempre utile per gestire qualsiasi paura. Importante è scegliere le parole giuste e cosa dire, molto importante è come diciamo qualcosa. Resta nel mondo interno del bambino poi il potere di rassicurazione e di protezione percepita, che gli deriva dal vedere che l’adulto, punto di riferimento, sa stargli accanto, anche in momenti complessi e difficili e sa farlo dandogli la capacità o di comprendere quello che sta succedendo o se quel che sta succedendo è un po’ incomprensibile e va contro ogni logica. Fargli comunque vedere che io e te siamo un “noi”, e che insieme giorno dopo giorno, io e te affrontiamo la vita, in tutte le sue difficoltà».   

  • C’è un’immagine che più di tante altre traumatizza i bambini? 

«Sì, direi che sono le immagini dove i bambini vedono le persone che piangono, vedere piangere qualcuno attiva immediatamente l’identificazione con la perdita, con la tristezza e con il dolore. Chiaramente le immagini peggiori sono quelle dove a piangere, a essere dislocati, soli e impauriti sono i bambini». 

  • Cosa accade nell’animo di un bambino quando gli capita di ascoltare dai telegiornali la conta dei bambini morti in Ucraina? 

«Questo genere di informazioni provocano una sorta di identificazione automatica, perché hanno proprio a che fare con altri bambini, con soggetti simili ai nostri figli, che sono quelli che attivano le emozioni più intense». 

  • Quindi mai lasciarli soli davanti al piccolo schermo? 

«No, soprattutto quando il piccolo schermo, come in questo periodo, non è altro che una costante e continua narrazione di guerra, cosa che porta i bambini a credere che la guerra sia in tutto il mondo, dappertutto, sempre. Il bambino nota che non ci sono altre narrazioni che raccontano una quotidianità molto vicina a quella che stanno continuando a vivere. In generale il telegiornale è la peggior narrazione che possa vedere un bambino, che ha meno di 7/8 anni, perché mostra la parte peggiore del mondo». 

  • Chi è Paolo, il protagonista del Suo romanzo “La vita accade”, figlio di tre padri?

«Paolo è un uomo che sta per diventare padre, è un uomo che è stato figlio e che è stato protagonista di una vicenda di violenza assistita, di violenza di genere. Paolo nella sua vita ha avuto molto dolore e molto disagio, proprio nel passaggio della vita in cui da uomo diventa padre, riprende in mano tutto il filo della storia da cui proviene. Il libro racconta il potere trasformativo dell’amore e anche il grande potere che ha l’esperienza della genitorialità di ridare senso a tutto ciò che abbiamo vissuto nella nostra storia passata per rimettere speranza e futuro nella nostra storia presente».

  • Per raccontare la storia di Paolo si è ispirato a una storia vera? 

«Nella storia di Paolo vi sono le storie di tanti uomini, soprattutto perché Paolo ci racconta la prima parte della sua vita: un’esperienza di figlio, che ha un padre biologico che non lo riconosce, un padre di fatto, che è un padre completamente irrisolto nella sua storia di vita e un padre affidatario che fa quel che può. Un mondo di uomini intrappolati in un percorso di analfabetismo emotivo, nella storia di questi personaggi ci sono una serie di disagi emotivi che hanno gli uomini quando chiedono l’aiuto di uno psicoterapeuta. Hanno dentro dei silenzi e delle parole che non sanno dire, perché nessuno glielo ha mai insegnato a fare».

  • La maggior parte degli uomini non sanno dare parola alle proprie emozioni e quindi le trasformano in silenzi, oppure in azioni disfunzionali? 

«Sì, invece di scrivere un saggio sull’analfabetismo emotivo degli uomini, ho provato a raccontare in un romanzo una storia molto potente ad alto impatto emotivo permettendo di vedere il tema dell’analfabetismo emotivo in azione nella vita degli uomini e nello stesso tempo permettendo di vedere un uomo, Paolo, il quale, pur con grande fatica, riesce a produrre una trasformazione molto generativa e molto efficace nella sua vita».

  • Il libro dimostra che solo facendo pace con il proprio passato si può diventare persone risolte, compagni e padri migliori. Ce ne vuole parlare? 

«Si, questo rimane un pezzo della storia di ciascuno di noi. Proprio dal titolo: “La vita accade”, ci sono delle cose nella vita che non abbiamo scelto, a volte alcune cose che ci capitano piene di fatica, disagio e di dolore rischiano di tenerci in ostaggio, intrappolati e quindi bloccano la capacità di abitare la vita nel qui e nell’ora del nostro oggi e nella prospettiva della speranza del nostro domani. Questo genere di libro parla a chi ha un passato faticoso, offrendo la possibilità al lettore di vedersi con speranza, capaci di rileggere la storia da cui veniamo, anche se dolorosa, per scrivere la storia del nostro presente e del nostro futuro, che ci vede liberati dal peso del dolore e della storia passata. Il passato è qualcosa che va attraversato, perché con il suo carico di sofferenza non deve interferire con la possibilità del nostro oggi di dare senso e  benessere anche alla nostra vita».