La figura del vescovo missionario Luca Milesi nelle pagine di un diario di viaggio in Eritrea

Il 21 maggio 2008 moriva ad Asmara monsignor Luca Milesi, frate cappuccino, eparca (vescovo) della diocesi di Barentù in Eritrea, dove aveva trascorso tutta la sua vita di missionario.

Nato a San Giovanni Bianco il 21 aprile 1924, Luca Milesi fu ammesso a 11 anni al noviziato dei cappuccini di Albino. Nel 1945 emise la professione e fu ordinato sacerdote a Milano il 4 marzo 1950.

Noncurante dei consigli di non andare in missione, per la sua salute cagionevole, nel 1952 partì per l’Eritrea dove fu assistente, poi insegnante e quindi direttore e parroco del Seminario di Adi Ugri.

Nel 1962 fu nominato superiore di tutte le comunità dei Frati Cappuccini in Eritrea, carica ricoperta fino al 1971, quando diventò amministratore apostolico del vicariato di Asmara. La sua attività si svolse quasi costantemente in un tempo di grande calamità, dovuta in particolare alla guerra tra Etiopia ed Eritrea, a cui si aggiunse, nel 1983-84 una terribile siccità che portò fame e miseria fra la gente.

Fu nominato primo vescovo della nuova Eparchia di Barentù il 30 dicembre 1995. Nel 1998 scoppiò di nuovo la guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia che sconvolse anche Barentù e a causa dei bombardamenti, monsignor Luca dovette fuggire dalla città con tutta la sua gente, mentre era in costruzione la chiesa cattedrale. Quando tornarono, a guerra finita, trovarono tutto raso al suolo e ogni cosa depredata. 

Nel 2002, a 78 anni, rassegnò le dimissioni da vescovo, ma rimase a Barentù, continuando a fare il parroco missionario nei villaggi della diocesi.

Lo chiamavano “il vescovo con il cappello di paglia” perché indossava sempre questo copricapo per ripararsi dal sole cocente. Gli occhi azzurri e limpidi come un ruscello di montagna, il sorriso aperto, il volto calmo e sereno di monsignor Luca denotavano un forte equilibrio interiore e la capacità di affrontare le enormi difficoltà e i problemi quotidiani di una comunità tra le più povere del mondo, alla quale si dedicava con esemplare spirito evangelico.   

Ho conosciuto monsignor Luca Milesi in occasione dei suoi periodici ritorni a San Giovanni Bianco e, quasi stregata dal suo carisma, nel 2002 ho accettato volentieri il suo invito a visitare i luoghi della sua missione. Ho trascorso così due settimane di grandi emozioni e significative esperienze assieme ai miei compagni di viaggio: don Giuseppe Minelli, parroco di San Giovanni Bianco e due amiche.

Emozioni che ho registrato in un diario che ha come personaggio principale proprio monsignor Luca alle prese con la sua gente e immerso nella sua quotidiana attività pastorale.

Mercoledì 27 febbraio 2002: arrivo all’Asmara

Con don Giuseppe, Lucia e Margherita, fissiamo l’appuntamento per la partenza alle ore 6.30 presso la Scuola Materna di San Giovanni Bianco.

È ancora buio quando mio marito mi accompagna e, dopo uno sbrigativo saluto, mi lascia ai compagni di viaggio.

Lucia carica le valigie sulla sua automobile e, da abile guidatrice, ci porta all’aeroporto della Malpensa: partiremo per Francoforte alle 10.50, a bordo di un grosso quadrimotore della compagnia tedesca Lufthansa.

Il viaggio è tranquillo. Mi sento un po’ elettrizzata per l’avvenimento e penso a casa. Atterriamo a Francoforte alle 13.00. Il cielo è nuvoloso e l’aria è frizzante, lo avvertiamo nel cambio dell’aereo.

Decolliamo di nuovo meno di un’ora dopo a bordo di un altro aereo della stessa compagnia che ci porterà all’Asmara. I passeggeri sono di varia nazionalità, per lo più di pelle scura. Si mangia, si beve, si sonnecchia, e intanto fuori si fa buio e ammiriamo attraverso i finestrini i fulgidi colori rosso giallastri del tramonto.

Verso le 19.00 arriviamo al Cairo. Molti passeggeri scendono, per la maggior parte sono egiziani, ma notiamo anche alcuni europei, uomini d’affari e altri che, con ogni probabilità, stanno andando in vacanza sul Mar Rosso. Qualche donna di pelle scura porta alle dita grossi anelli con preziosi diamanti.

La sosta dura un’oretta, il tempo per il rifornimento, poi si riparte e alle 23.10, in perfetto orario, arriviamo all’Asmara. Regoliamo gli orologi, perché l’Eritrea è due fusi orari in anticipo rispetto all’ora italiana, scendiamo dall’aereo e raggiungiamo la hall del piccolo aeroporto dove gli altoparlanti diffondono le note di una canzona italiana.

Siamo in pochi in quell’angusto locale, in un angolo ci sono delle donne africane, vestite a lutto che piangono appoggiandosi una all’altra. Le avevo già notate sull’aereo a Francoforte, con ogni probabilità sono venute per la morte di un parente.

All’uscita ho il primo impatto con l’Africa: sotto le scarpe la terra battuta, non un filo d’erba, qualche cespuglio spinoso qua e là, dei fiori trapiantati, circondati da una piccola pozza d’acqua. Al di là del recinto, alla luce dei lampioni si intravedono piccole macchie chiare, sono donne avvolte nei loro nezelà bianchi, accovacciate, che aspettano i parenti.

Tutto è silenzioso, sembra che il tempo si sia fermato.

All’uscita ecco, come una luce, monsignor Luca che ci sta aspettando, ci abbraccia, ci chiede del viaggio e ci fa conoscere un fratello ausiliario di nome Jemané (Alla destra del Padre), due ragazze e l’autista.

Hanno due fuoristrada, uno scoperto su cui carichiamo i nostri bagagli e uno per noi: ci porteranno alla “Casa dei poveri” uno dei sei istituti fondati da monsignore nei cinquant’anni di terra africana.

A mano a mano che ci allontaniamo dall’aeroporto, osserviamo il paesaggio nel buio: edifici nuovi, moderni, dotati di grandi vetrate; più in là, il campo base dei soldati dell’ONU.

L’autista Jemané guida con molta delicatezza, per evitare le buche della strada, monsignor Luca è loquace, ma tranquillo e ci mette a nostro agio.

Dopo neanche un quarto d’ora arriviamo al nostro alloggio: è una costruzione nuova, disposta su un unico piano, a cui si accede attraverso un’ampia scalinata che porta su una terrazza.

All’ingresso ci accolgono due donne, la più anziana, che ci dice di chiamarsi Aragù, ha la pelle scura, gli occhi dolci come la donna che avevo immaginato una volta a scuola durante la lettura di un brano antologico ambientato in Sud Africa. È avvolta nel suo nezelà bianco e mentre parla si copre la bocca con una mano per celare la mancanza di alcuni denti.

Ormai è mezzanotte e, dopo un breve spuntino, servitoci nella sala da pranzo, le due donne ci mostrano le nostre camere, ordinate e pulite: io apro la finestra e sento i grilli cantare.

Jemané, prima di lasciarci, ci avverte che verrà a prenderci l’indomani di buon mattino per farci visitare la città a bordo della sua Toyota, mentre monsignore lo incontreremo a pranzo perché sarà impegnato tutta la mattinata in un convegno con i vescovi.

(continua)