I ragazzi, il male, il dolore. Un’esperienza comunitaria

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Scrivo non senza fatica queste righe, ma scrivere è necessario per rileggere il vissuto e perché esso diventi memoria viva, sopravvivendo all’inevitabile modificarsi del ricordo che il tempo agisce inesorabilmente, come un fiume leviga le pietre che abitano il suo letto.

Il papà di una mia alunna, Noemi, sorella di una ragazza che lo era alcuni anni fa, Federica, è stato ucciso, Il suo corpo martoriato è stato trovato in casa sua.

Venerdì scorso ancora non si sapeva che l’omicida, che sarebbe stato scoperto dopo pochi giorni di indagine, era l’ex compagno proprio di Federica, che ne ha ucciso il padre a motivo di un’automobile del valore di poche migliaia di euro. Venerdì scorso Noemi non c’era a scuola, giustamente. Ma c’era la sua classe.

Un silenzio ricolmo di grandi domande

Appena entrato in seconda media, alle 9 di venerdì, regnava un silenzio impressionante nell’aula. Dentro una classe che mi richiede sempre qualche minuto prima di iniziare la lezione, vista la vivacità degli alunni, questa volta i ragazzi sono fermi immobili e, cosa che non accade mai, il libro di religione è già aperto sul banco di tutti alla pagina dalla quale dovrei iniziare l’argomento nuovo: San Francesco d’Assisi.

Mi siedo e faccio l’appello, saltando Noemi. Poi dico: “Ragazzi, non ho saltato il nome della vostra compagna a caso. Chiudete il libro e mettetelo via per favore, oggi parliamo un po’ tra noi!”. Eseguono immediatamente: forse si aspettano che il don (che vuole essere chiamato “don”, non “profe”) dica loro qualcosa.. o li ascolti. Per prima cosa ammetto tutta la mia fatica dinanzi a loro: preparare una lezione non è difficile, ma affrontare qualcosa che ci sconvolge, il male più profondo, è difficilissimo.

La fatica di affrontare il male più profondo

Non c’è una ricetta, ma solo il tentativo di stare uniti per continuare a celebrare la vita laddove la violenza ha fatto irrompere la morte. I ragazzi vedono la mia fatica, della quale non mi vergogno assolutamente: sono un prete, non ho la sfera magica e tutto quello che posso fare con loro e per loro è essere presente e vicino per affrontare una realtà che pare un incubo.

Tutto quello che ho loro da dire è che il male rimane mistero… balbetto qualcosa su Caino e Abele… e ricordo che la Bibbia, come la vita, ci dicono che il male esiste. Non sappiamo perché, ma esiste … e le cose cattive capitano anche alle persone buone. Poi ascolto i ragazzi. Mi raccontano di come la situazione che si è creata non sembri loro vera; una ragazza, con un’analisi profonda, sottolinea come si sia accorta della differenza tra i tanti delitti di cui si sente raccontare nei telegiornali e l’impatto di un delitto che ha colpito la loro comunità e, soprattutto, il papà di un’amica alla quale vogliono bene. “Ci rendiamo conto adesso di cosa vuol dire don..”.

Esiste un modo “giusto” per stare vicino a chi soffre?

Un’amica di Noemi, che la vedrà il pomeriggio per stare un po’ con lei, vuole che parliamo di come devono comportarsi. Riflettiamo insieme e concordiamo che è importante non cadere nella chiacchiera né nella curiosità: meno parole possibili e tanta vicinanza.

Dico loro che stare accanto a Noemi sarà la cosa fondamentale, uscire con lei, farle respirare normalità.. basta un abbraccio, tante parole non servono. Finisce l’ora. Due ragazze chiedono di poter uscire un attimo: “Don, ci viene da piangere”.

“Va bene, va benissimo. Piangere non è dei deboli, ma di chi sa vivere e soffrire con gli altri. Non dovete aver vergogna di piangere!”. Esco dalla classe arricchito dall’umanità dei miei alunni: mi hanno fatto loro la lezione.

Venerdì prossimo riparto da San Francesco, al quale affido i miei ragazzi e mi affido.. non insisterò sulle date, ma sulla verità profonda della sua preghiera: O Signore fa’ di me uno strumento della tua pace.. dove è odio che io porti l’amore..”.