Le battaglie più sanguinose intorno al corpo delle donne. Maternità, molestie e gender-gap

Molestie sessuali

Ciascun volto è il simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto. È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi”.

Tahar Ben Jelloun

Le battaglie più aspre, quelle che sollevano più opposizione e rancore, si combattono anche oggi sul corpo delle donne, dove affondano le radici stesse e il mistero della vita. È doloroso constatare che a restare sconfitte, in questo ambito, continuino ad essere la capacità di ascolto, di vicinanza, di cura che dovrebbero essere invece fra le principali preoccupazioni in un tempo lacerato come il nostro. La capacità di chinarsi sulle ferite delle persone.

È un pensiero che è tornato alla ribalta molte volte, in forme diverse, in questi giorni, mentre nella timeline delle notizie e nei trend-topics scorrevano in modo parossistico, secondo i ritmi e l’accostamento concettuale frastagliato che è tipico della società dei social network, le polemiche sull’aborto negli Stati Uniti, l’aborto per le profughe ucraine in Polonia, le discussioni in Italia sulle molestie al raduno degli Alpini e il furore collettivo per la questione del “gender gap” risollevata da un’affermazione della stilista Elisabetta Franchi sulle donne “anta”, preferite in ambito professionale “perché hanno già fatto figli”.

Sono questioni, ovviamente, molto diverse, ma alla base ci sono sempre il corpo femminile e la maternità. E colpisce l’approccio adottato verso di esse dai media e dall’opinione pubblica. Nel denominatore comune ci sono alcuni grandi assenti: dignità e rispetto, quelli ai quali accenna nella citazione posta all’inizio dell’articolo Tahar Ben Jelloun, autore marocchino noto per la sua capacità esemplare di interpretare i temi del dialogo tra culture e fedi diverse, del razzismo, dell’immigrazione.

Accade perché ogni volta che si toccano queste questioni – legate a valori fondamentali, quindi a una ben precisa visione del mondo – gli opposti schieramenti tendono a “polarizzarsi”, dimenticando il fondamento non religioso, ma umano che Papa Francesco ripete spesso: anche il “nemico” è una persona. E il suo continuo appello “o siamo fratelli o crolla tutto”. È difficile iniziare un dialogo stando dietro a una porta chiusa mentre si urlano le proprie ragioni.

Potrebbe essere utile, invece, cambiare prospettiva: cercare anche nelle questioni più divisive come questa un terreno sul quale sia possibile una qualche forma di riconoscimento reciproco, un confronto costruttivo, senza per questo rinunciare alle proprie convinzioni.

Rispetto al ricco dibattito che si è sollevato nell’ultima settimana sull’aborto con il contributo di attivisti, intellettuali, artisti, esponenti del mondo della cultura, colpisce per esempio nel sottofondo una comune constatazione: la solitudine vissuta da moltissime donne – anche nei Paesi considerati più “avanzati” – di fronte a problemi di emarginazione, povertà, scarsa istruzione. È soprattutto da qui, a nostro parere, che si dovrebbe partire per condurre un’azione incisiva a sostegno dell’ emancipazione e della libertà femminile, elementi che siamo portati a considerare acquisiti, e invece non lo sono (continuano a non esserlo). Quanto è capace la società contemporanea di custodire la vita delle persone nel senso più pieno, di offrire spazio e libertà per realizzarla? Quanto se ne preoccupa? Su quali basi si gioca, questa partita? Il progresso economico?
 
Quando si mette l’accento su possibili soluzioni diverse ai problemi e alle ferite che portano una donna a scegliere l’aborto, opportunità che non comportino necessariamente la scelta di interrompere la gravidanza – principio contenuto, in Italia, dalla stessa legge 194 che la rende legittima – difficilmente si viene presi sul serio: lo racconta l’esperienza ricca dei Centri di aiuto alla vita. È raro che ci si prenda il tempo e la serenità di valutare queste soluzioni come opportunità, senza pregiudizi, senza considerarle a priori come “manipolazioni” o come “nemiche” della libertà, della condizione e del corpo femminile. Colpisce d’altra parte, nella legislazione americana, l’accenno al feto come “frutto del corpo della donna” di cui essa detiene “la proprietà”. Eppure – al netto delle battaglie in atto in questo momento nei tribunali, comunque significative per le tensioni e le realtà che fanno emergere – ci sembra chiaro che il cammino da compiere in questo ambito – la tutela della vita, della maternità, del corpo femminile – sia lungo e impegnativo e che possa e debba coinvolgere tutta la società civile, al di là degli schieramenti ideologici, possibilmente senza preclusioni.

Combattere attivamente, per esempio, perché la maternità non sia una condizione penalizzante per la professionalità delle donne, e che siano individuate in modo innovativo e creativo nuove forme di conciliazione tra famiglia e lavoro, per esempio regolamentando e consentendo un maggiore ricorso allo smart-working anche una volta terminata l’emergenza della pandemia. 

Offrire sostegni e incentivi a chi decide di proseguire una gravidanza indesiderata fino al termine affidando poi i figli in adozione, adottando anche corretti strumenti di protezione personale e sociale.

Continuare a impegnarsi per rimuovere gli ostacoli culturali che fanno ancora sì che, nel ventunesimo secolo, le donne possano essere considerate “oggetti”, che sia socialmente accettabile fare scherzi pesanti, come il cosiddetto “catcalling” (infastidire con un corteggiamento inopportuno), che siano considerate “goliardie” le molestie attuate in condizioni di ebbrezza durante un raduno.

Adottare ogni giorno in qualunque ambito, compreso il posto di lavoro, un atteggiamento rispettoso e corretto, evitare di deprezzare e denigrare il lavoro femminile, assegnare la stessa retribuzione a uomini e donne a parità di mansioni e di impegno. Evitare di considerare una donna “più debole” e magari inadatta alla leadership perché evita di alzare la voce e sceglie la gentilezza nella gestione dei conflitti.

Sono condizioni di base, quegli elementi “fondamentali”, purtroppo ancora molto lontani dall’essere pienamente realizzati. Sarebbe già un passo avanti capire che non si tratta di una questione di “potere” oppure di un anacronistico “femminismo”, ma di rispetto e di dignità. Di opportunità. Ancora, nonostante i cambiamenti significativi avvenuti nel mondo nell’ultimo secolo. La strada per custodire la vita – sotto ogni aspetto – passa anche da qui.