pastorale della cura
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Non solo i cappellani: comunità cristiane chiamate ad accompagnare nella sofferenza

Da diversi anni coordino il servizio di assistenza in ospedale e sono sempre più convinto dell’utilità e del valore di questo servizio per chi soffre e per chi cura. 

Il Papa ci invita costantemente a “toccare con mano” la vita delle persone, ad essere “Chiesa in uscita” per entrare in quel “tempio sacro” che è la vita concreta di ogni fratello. Lì si apre un “universo”, si incrociano due sguardi, emergono domande forti, si condividono storie complesse, si raccolgono testimonianze grandi e provocazioni dure.

Nessuno può restare solo, specialmente nell’ora della prova. I distanziamenti sono doverosi, ma non possono portare ad un “isolamento mortale”, che ha la forza di abbruttire il modo con cui si guarda la vita. Gli operatori sanitari fanno tutto il possibile, a volte anche l’impossibile, ma hanno i minuti contati. E la lezione della pandemia è che non basta curare il corpo, noi tutti abbiamo bisogno di sentire che c’è qualcuno che si prende cura di noi, integralmente: la malattia intacca sempre un po’ anche l’anima. 

Dal letto di un ospedale la vita può bloccarsi o ripartire in modo nuovo. Non si tratta dunque solo di stare accanto, che già sarebbe molto. Si tratta di cogliere la sete del cuore che in questi momenti affiora più forte che in altri, cerca risposte, ha bisogno di conforto, si apre al cambiamento e a ciò che, provocando la vita, la supera.

È l’innegabile dimensione spirituale – che insieme all’aspetto biologico, psicologico e sociale – va presa in carico da chi cura. Il cappellano non va a “fare le sue cose religiose” in ospedale, o addirittura a “far propaganda” alla Chiesa.

Il servizio di assistenza spirituale è parte del processo di cura; in fondo, è il motivo sotterraneo che fa dire a tutti i malati “Preferirei essere curato a casa”: vuol dire che, al di là dei farmaci che sono necessari per la salute, c’è qualcosa di invisibile che mi fa stare bene, senza cui la salute sarebbe troppo poco.

Senza qualcuno che mi vuole bene, mi ascolta, raccoglie il mio peggio e incoraggia il mio meglio, sarei perso. Qui c’è qualcosa che ha a che fare con la dimensione spirituale, un qualcosa che appartiene a tutti gli uomini e che fa rima con le preoccupazioni del Vangelo. Gesù buon Samaritano continua a prendersi cura delle ferite dei suoi figli, anche attraverso il tempo e i gesti di altri fratelli.

Per questo, il grande grazie agli operatori sanitari e alle aziende ospedaliere non può farci dimenticare, come comunità cristiane, che l’accompagnamento della sofferenza è un servizio che ci interroga da vicino.

E non riguarda solo i preti, i cappellani che sono gli addetti ai lavori: anche laici, religiosi e chiunque se la senta può dare una mano in corsia. Proprio perché una cosa così delicata non si improvvisa e non si può affidare solo allo slancio generoso, la Diocesi ha organizzato e sta organizzando dei corsi di educazione pastorale clinica per coloro che sentono di potersi mettere a disposizione di questo servizio di accompagnamento dei sofferenti nella fede: un ministero fatto di vicinanza, ascolto e consolazione.

Si tratta di corsi intensivi, che prevedono lezioni teoriche, un tirocinio personale in ospedale per mettersi alla prova e lavori in gruppo per la verifica e la rilettura dell’esperienza. Il corso di questa prima parte dell’anno vede impegnati sette laici, che al momento stanno svolgendo il loro tirocinio presso la clinica San Francesco. Per avere maggiori informazioni sui prossimi appuntamenti è sempre possibile rivolgersi all’ufficio di Pastorale della Salute della diocesi, all’indirizzo ufficiosalute@curia.bergamo.it.

don Michelangelo Finazzi – Direttore Ufficio di Pastorale della Salute