“Il perdono mi ha illuminato la vita”. La storia di Gemma Calabresi

Ricorre oggi il cinquantesimo anniversario dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972. Questa sera la vedova Gemma Capra con i figli Mario, Paolo e Luigi lo ricorderanno con un incontro “Luigi Calabresi e il senso di questi 50 anni” al quale parteciperanno la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il giornalista Paolo Mieli. Luca Zingaretti reciterà alcune letture accompagnato dalle musiche di Manù Bandettini. L’incontro si può seguire online dagli account Facebook e YouTube di Mario Calabresi.

L’odio e il desiderio di vendetta si possono trasformare in fiducia negli altri e in amore. Lo dimostra un libro uscito di recente, “La crepa e la luce. Sulla strada del perdono. La mia storia” (Mondadori 2022, Collana “Strade blu”, pp. 144, 17,50 euro) di Gemma Calabresi Milite. 

L’autrice racconta il suo percorso di perdono iniziato cinquant’anni fa, quando venne assassinato suo marito, il commissario Luigi Calabresi, nato a Roma il 14 novembre 1937 e morto a Milano il 17 maggio 1972 in un attentato. 

I colpevoli, tutti esponenti di Lotta Continua, vennero individuati solo dopo molti anni nelle persone di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino quali esecutori, mentre Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri furono ritenuti i mandanti.  

Abbiamo intervistato Gemma Calabresi Milite. 

  • Signora Gemma, il 17 maggio del 1972, prima di uscire di casa, Suo marito Luigi Calabresi pronunciò una frase, che Lei considerò in seguito come il suo testamento spirituale. Ce ne vuole parlare? 

«Sì. Quella mattina era iniziata come una mattina uguale a tutte le altre, come avviene in ogni famiglia del mondo. Non si immaginano mai quale possono essere le ultime parole, gli ultimi gesti di chi sta per lasciarci… Avevo fatto il caffè, avevo dato da mangiare ai bambini. Luigi era già uscito, mi aveva salutato, poi, girandomi, dalla cucina l’ho visto ripassare in anticamera. Aveva cambiato la cravatta, ne aveva scelta una di lana bianca. Tornando da me mi chiese: “Come sto?”. Era un po’ vanitoso, gli piaceva vestire bene. Gli risposi: “Stai benissimo, ma stavi bene anche con la cravatta che indossavi prima”. Allora Luigi mi disse: “Questa è il simbolo della mia purezza”. Lei pensi che sotto casa lo stavano aspettando per ucciderlo. Quelle sono le ultime parole che io ho sentito da lui e che poi ho interpretato in un altro modo. “Diranno tante cose di me, cercheranno di infangarmi” – già lo stavano facendo da un anno – “ma tu sappi che io sono puro, sono innocente”. Queste sono le ultime parole che lui mi ha lasciato e che io considero quasi un testamento. Quello che faceva in quegli anni il terrorismo era disumanizzare i loro obiettivi, renderli dei simboli, renderli una cosa, per poi poterli colpire anche con il consenso popolare. Mio marito non andava in giro armato, prima di tutto perché era contrario ai suoi principi. Un giorno, qualche tempo prima che morisse, mi aveva detto: “Gemma, se mi colpiranno, non mi guarderanno mai negli occhi, mi colpiranno alle spalle”. E così è stato». 

  • I primi tempi dopo l’assassinio di Suo marito, giovanissima vedova di 25 anni, con due bimbi piccolissimi e uno in grembo, immaginava di infiltrarsi nei circoli di estrema sinistra per vendicarsi. Invece che cosa accadde? 

«La mattina del 17 maggio 1972, dopo che avevano ucciso mio marito, quando don Sandro, il mio parroco, con il movimento delle labbra, senza emettere alcun suono, mi disse: “È morto”, mi accasciai sul divano, colpita da un dolore lacerante, con una sensazione di vuoto e di abbandono. Niente mi sembrava avesse più significato. Non so quanto tempo sono rimasta così, con il mio parroco vicino che mi teneva la mano. A un certo punto, ho sentito come tutto ovattato intorno a me, ho sentito una forte pace dentro di me. E una grande forza. Sentivo che ce l’avrei fatta. Quella mattina ho ricevuto da Dio il dono della fede. La fede non toglie il dolore e la sofferenza, però la riempie di significati, perché dopo ti dà la forza nel tempo, non ti fa sentire sola, ti fa di nuovo amare la vita e gli altri. È tutto un percorso. Nonostante abbia avuto questa esperienza, che mi porterò dietro per tutta la vita, io sono certa di questa presenza, che ho sentito, come se Dio fosse corso ad aiutarmi e a indicarmi la strada. Tanto è vero che io dissi a don Sandro: “Recitiamo l’Ave Maria per la famiglia dell’assassino, che avrà un dolore più grande del mio”. Non potevo essere io in quel momento, a venticinque anni, incinta del terzo figlio, non era farina del mio sacco. Col senno di poi ho pensato: “Il Signore mi indica la strada”. Dio voleva che testimoniassi». 

  • Ha percorso un lungo e faticoso cammino che l’ha portata lontanissima da quei pensieri e da quelle emozioni. Si può vivere una vita d’amore anche dopo un dolore lacerante?  

«Nonostante questa bellissima esperienza, che porto ancora nel cuore a distanza di quasi cinquant’anni, ho vissuto anni bui, di sconforto, di tristezza, di pianto. Il primo periodo dopo la morte di mio marito, a letto, prima di addormentarmi, facevo questa fantasia: infiltrarmi nei covi di questi terroristi e quando qualcuno si fosse vantato di aver ucciso Calabresi, avrei tirato fuori dalla mia borsa la pistola e avrei sparato. Oggi mi vergogno di questo pensiero, era una fantasia che allora mi faceva stare bene. Questa fantasia finora non l’avevo mai confessata, ne parlo nel libro perché voglio dire a chi legge che si può credere alle persone anche dopo un tradimento. Si può cambiare un giudizio su coloro che vedevi solo come se rappresentassero tutto il male del mondo. Sì, si può vivere una vita d’amore anche dopo un dolore lacerante ed essere felici. Voglio dare questo messaggio di speranza e anche restituire qualcosa. Il mio percorso l’ho voluto condividere e testimoniare. Se io ce l’ho fatta è grazie a tutte le persone sconosciute che mi hanno scritto, mi hanno dato solidarietà, una carezza, una stretta di mano per la strada, mi hanno detto: “La pensiamo, preghiamo per lei”. Non mi sono mai sentita sola. La mia forza sono stati gli altri e con questo libro voglio ringraziarli tutti. Quando mi chiedono: “Come ce l’ha fatta?”, io rispondo: “Non ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta” ». 

  • È dunque vero che “Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”, ripensando alla frase di Khalil Gibran, esergo del volume? 

«Sì, direi di sì. Dal male può nascere il bene. Dalla tristezza può arrivare la gioia. L’importante è non chiudersi, non piangersi addosso. Anche quando ero arrabbiata e triste, ho sempre cercato che i miei figli amassero gli altri, ho fatto in modo che non portassero nei loro cuori né odio né rancore, ma che sapessero godersi la vita, perché l’odio e il rancore ti divorano tutto: non esiste più un’amicizia, un tramonto, ti alzi al mattino e sei già arrabbiato con la vita. Per i miei figli sarebbe stata decisamente una tragedia in più». 

  • Desidera raccontarci la Sua esperienza come insegnante di religione, dove conobbe il Suo secondo marito? 

«Tonino Milite, pittore e poeta, ha colorato la nostra vita, ha abbracciato la nostra causa, ci ha aiutato durante i processi, sempre un passo indietro, perché io ero sempre la vedova Calabresi, è stato sempre molto generoso. Lui insegnava materie artistiche in questa scuola dove io insegnavo religione. Insegnare mi ha aiutato moltissimo, un giorno un alunno mi ha chiesto: “Maestra, perché le persone che muoiono diventano tutte buone. Muoiono solo i buoni?”. Ho risposto che era giusto così, della persona che è venuta a mancare bisogna ricordare l’esempio positivo che ha lasciato, l’amore che ha avuto per gli altri, i suoi valori e non gli errori. Da quel momento dalla crepa è entrata la luce. Ho pensato: “Anche gli assassini di mio marito non sono solo tali, anche loro saranno buoni padri e ottimi mariti, amano la famiglia, hanno tanti amici, semmai aiutano gli altri. Non sta a me giudicare. Che diritto ho io di relegarli tutta la vita all’atto peggiore che hanno compiuto”. In quel momento ho ridato loro la loro umanità, inserendoli nel loro contesto. Da lì è cominciato il mio cammino di perdono».

  • Da qualche anno, fa quelle che chiama “le testimonianze”. Di che cosa si tratta?

«Praticamente quello che scritto nel volume, il mio percorso di perdono vado a raccontarlo in giro.  È un dare e un avere, le persone mi danno tanta felicità, mi chiedono consiglio e mi dicono che anche loro non riescono a perdonare una persona per determinati motivi. Dire che Dio ci aiuta e che non siamo mai soli, sta accanto a noi, dà speranza alle persone ed è una cosa importante. Io l’ho provato». 

  • Il 14 maggio 2004, il Presidente Carlo Azeglio Ciampi le appuntò al petto la medaglia d’oro al valor civile alla memoria del commissario Luigi Calabresi. Cosa ha pensato in quei momenti? 

«Sono stata orgogliosa di questa medaglia, mi ha dato tanta gioia, ero contenta per il popolo italiano. Qualcuno mi ha chiesto: “Cosa ti ha dato di più questa onorificenza?”. A me questa medaglia non dava niente di più, so bene chi fosse stato mio marito. Era lo Stato che riconosceva Luigi Calabresi dandogli la medaglia al valor civile. Gli italiani non l’hanno dimenticato, la maggioranza purtroppo è silenziosa, ho avuto tantissime dimostrazioni di affetto e di amore nel corso di questi quasi cinquant’anni».