La forza della fragilità. Monsignor Paglia: “Non è una condanna, può spingerci ad essere più uniti”

Pandemia e fragilità, binomio inscindibile, perché ciascuno di noi in questi ultimi due anni si è sentito smarrito, confuso, impaurito. 

La copertina del saggio

“Presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa” come ci ha ricordato Papa Francesco, siamo diventati ancora più fragili. Ma la fragilità “non deve essere una condanna, può avere una sua forza, quella di farci unire”. Il senso di questa frase è il cuore del volume “La forza della fragilità” (Editori Laterza 2022, Collana “i Robinson/Letture”, pp. 160, 15,00 euro), nuovo saggio di Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia, Consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, da noi intervistato.

  • Mons. Paglia, rispetto al passato viviamo di più e meglio, ma contempora­neamente è aumentato il numero delle persone vulnerabili. È uno dei paradossi del nostro tempo?  

«Sì, è certamente così. Ma allo stesso tempo le dico anche di no. È un paradosso che si inscrive nella logica di questa società che ci fa vivere più a lungo, come se la morte non esistesse. Che ci porta ad accumulare beni e risorse come se fossero infinite o godibili per sempre e da un numero ristretto di persone. Sono queste le basi della fragilità profonda delle nostre società: non guardare ai miliardi di persone che non hanno beni, risorse, possibilità educative, cibo, acqua potabile, possibilità di esprimersi e realizzare i propri sogni. La pandemia ha svelato il reale volto del nostro mondo, come di nuovo lo sta svelando la guerra che si sta consumando in Europa in queste settimane, come se la pandemia non ci fosse. Viviamo immersi in un mondo che troppo spesso si muove sotto la spinta della volontà di dominio e sopraffazione, con una fiducia cieca nella logica delle armi e della forza. Così non va. È responsabilità di ognuno di noi – dei politici, dei cittadini, delle religioni, degli intellettuali, degli scienziati – invertire questa spinta all’autodistruzione attraverso la riscoperta di un umanesimo universale». 

  • La pandemia ci ha fatto capire che, nonostante tutti i nostri progressi e le tecnologie a nostra disposizione, siamo e rimaniamo persone fragili, per non parlare delle istituzioni, dei governi, della sanità e della stessa scienza. Quale lezione trarre allora dalla pandemia? 

«La pandemia – si può dire – ha toccato con precisione chirurgica tutte le nostre fragilità. Quel­le personali e quelle istituzionali. Il Covid-19 ha messo a nu­do il fatto che, dietro lo scintillio delle sue tante conquiste, la verità della nostra società avanzata è un po’ diversa da quella che sono (e siamo) soliti raccontare. 

“Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, sfiorandoci con il tocco gentile di una presenza transitoria, lasciandoci vivere indi­sturbati, nella convinzione che tutto andrà secondo i piani. Tutti noi umani affioriamo da una notte dalle origini miste­riose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quel­lo che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare il mistero da cui veniamo e a cui, infine, torneremo. Il mistero dell’esistenza ci avvolge. La dolorosa prova della fragilità della vita può anche rinnovare la coscienza che essa è comunque un dono».

  • Scrive che la fragilità è un dono, che dobbiamo assumer­la come punto di forza per combattere con la cura l’incuria imperante e l’indifferenza, “grande malattia del nostro tempo” ripensando alle parole di Papa Francesco pronunciate nel 2016 ad Assisi alla presenza dei leader religiosi e di numerosi fedeli. Desidera chiarire la Sua riflessone?

«C’è una lezione da trarre da questo durissimo tempo di emergenza sanitaria: siamo tutti legati gli uni agli al­tri. E la consapevolezza della comune fragilità deve spingerci a riscoprire l’urgenza di scegliere la via della solidarietà, os­sia del prendersi cura gli uni degli altri. L’esempio della ma­scherina è illuminante: non la indossiamo solo per salvare noi stessi, ma anche gli altri. Insomma, la comune fragilità invita a una più pronta solidarietà. È una esperienza che gli spiriti più attenti hanno vissuto già in passato. Ma in questo tempo è emersa come una risposta degna di attenzione. La comune debolezza ci ha fatto scoprire il bisogno della solidarietà o, se si vuole, della fraternità. Addolora da questo punto di vista l’atteggiamento di chi ancora si rifiuta di vaccinarsi, mettendo le proprie pur comprensibili paure e i propri dubbi davanti all’esigenza di “agire insieme”, di compiere un gesto che ha tanto più valore ed efficacia quanto più è diffuso».

  • “Ci siamo trovati su una stessa barca fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari, chiamati a remare insieme e a confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti. E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme. Nessuno si salva da solo”. Ripensando alla preghiera sociale di Papa Francesco, è nell’alleanza dei fragili la via per un umanesimo universale?

«La politica odierna, che ha visto un’ascesa del populismo, è spesso contrassegnata da divisioni e scontri, da una separazione tra “noi” e “loro”. Questo la porta ad essere guidata da risenti­mento e paura. Da rabbia e da violenza. Insomma, è una politica oppositiva: bisogna opporsi all’altro per crescere da sé stessi. Va ripensata la politica, quella basata sul “patto”, tesa al “Noi” della famiglia dei popoli. La grande lezione da apprendere dalla pandemia è che nel mondo possiamo sopravvivere solo nell’oriz­zonte di un nuovo patto sociale tra i popoli. Questa è la via del nostro futuro immediato. E oggi è il tempo per intraprenderla. Come in passato i popoli sono passati dal Noi all’Io, oggi la rotta va invertita: è necessario che noi pensiamo in termini di “Noi”, non soltanto di “Io”. Siamo entrati nel secolo XXI scarichi di sogni e di visioni comuni. In questi primi venti anni abbiamo assistito a tragedie che non pensavamo possibili e il futuro che ci aspetta sembra segnato da catastrofi planetarie. È facile essere pessimisti: ci sono ragioni sufficienti per esserlo. Non è, però, una condanna senza appello. Abbiamo bisogno di avere uno scatto di pensieri e di azioni mentre abbandoniamo ogni cedimento al prometeismo o al narcisismo. Un nuovo futuro è possibile solo se ci incam­miniamo verso l’unità della famiglia umana che responsabil­mente abita il pianeta come la “casa comune” di tutti, anche di coloro che verranno dopo di noi».

  • Quale futuro ci aspetta dopo la pandemia?

«Questo è il tempo opportuno per aprire una nuova stagio­ne per la fraternità universale nel nostro pianeta: non si tratta di un sentimento di benevolenza universale, che spesso coin­cide praticamente con un sogno di libertà in cui ciascuno si fa “i fatti propri”. Si tratta piuttosto di ritornare a concepirsi come soggetti legati da una sincera disponibilità per il proget­to comune di una convivenza in cui ciascuno è orgoglioso di contribuire alla protezione e alla riuscita di una vita decente e sostenibile. Soggetti capaci di incoraggiare lo sviluppo dei doni migliori e delle risorse più efficaci per il sostegno delle generazioni che seguono, in modo da non abitare la Terra invano e lasciarla migliore per l’umanità che deve seguire.

L’orizzonte della fraternità civile è un fattore decisivo per la convivenza pacifica tra i popoli: la pace non è figlia della com­petizione individuale, ma piuttosto della cooperazione solida­le. Siamo chiamati a riconoscere, con emozione nuova e pro­fonda, che siamo affidati gli uni agli altri e che tutti dobbiamo abitare e custodire l’unica casa che abbiamo. Mai come oggi – è la pandemia a mostrarcelo – la relazione di cura vicendevole si presenta come il paradigma fondamentale della nostra con­vivenza. 

Non possiamo più dire: “La mia libertà finisce dove incomincia quella dell’altro”. E neppure: “La mia vita dipende solo ed esclusivamente da me”. Erano già due modi rozzi di pensare. Oggi, di questi luoghi comuni rimangono solo i cocci. Noi siamo parte dell’umanità e l’umanità è parte di noi: dobbia­mo accettare queste dipendenze e apprezzare la responsabi­lità che ce ne rende partecipi e protagonisti. Non c’è alcun diritto che non abbia come risvolto un dovere corrisponden­te: la convivenza dei liberi e uguali è un tema squisitamente etico, umanistico, spirituale, non tecnico».