Amicizia, idee, intraprendenza: così Lorenzo e Davide han fatto rivivere il Porto di Clanezzo

Può un’amicizia diventare terreno fertile per un’idea? Può un’idea mutare in progetto di vita? Ad ascoltare Lorenzo Filippini e Davide Baggi, che hanno saputo recuperare (e far rinascere) il Porto di Clanezzo, sembrerebbe proprio di sì. Una storia, la loro, che incomincia molto presto, durante l’adolescenza. «Io e Davide ci conosciamo da quando avevamo quindici anni – racconta Lorenzo Filippini, 32 anni, originario di Sorisole, una laurea in ingegneria edile e project manager presso un’azienda di Zogno –. La nostra è una grande amicizia. Da ragazzi, facevamo ogni cosa assieme: se c’ero io, c’era anche lui e viceversa». Un legame estremamente forte che, a un certo punto, incrocia un desiderio profondo. «Da diverso tempo, ormai, chiacchieravamo di quanto sarebbe stato bello dare una svolta alla nostra vita – spiega Filippini –, reinventandoci e condividendo un nuovo lavoro, tutto nostro. Con l’avvicinarsi dei trent’anni, il momento ci sembrava propizio. Ci siamo detti: “O adesso o mai più!”».

Da principio, i due pensano di prendere in gestione un locale qualsiasi e farne un ristorante. Ma poi, alla fine, la scelta cade su un luogo familiare e molto amato, un posto del cuore: il Porto di Clanezzo, nel comune di Ubiale Clanezzo, in Valle Brembana. «È un luogo che ci è sempre piaciuto e affascinato – afferma Davide Baggi, 30 anni, originario di Ponteranica, perito elettronico e impiegato tecnico in un’azienda di Gorle –, sono tantissimi i ricordi legati a quel posto. Penso, per esempio, a quando, da ragazzini, durante le domeniche assolate, prendevamo le biciclette e, proprio nei pressi del Porto, andavamo a fare il bagno nel Brembo». Struttura risalente al 1615, l’antico Porto di Clanezzo (in parte al quale sorgeva una dogana) è una piccola dimora arroccata sul Brembo, residenza, una volta, di un barcaiolo, che, con una chiatta, faceva spola fra le due rive del fiume, trasportando merci e persone. Verso la metà del 1800, l’immobile venne convertito in osteria (poi chiusa, perché sede di moti anti-austriaci), mentre il servizio traghetto rimase attivo sino al 1878 (anno in cui venne costruita una passerella, il cosiddetto “Put che bala”), per poi essere adibito al servizio postale e, infine, divenire casa privata, fino al 1992. E fino all’arrivo di Lorenzo e Davide. «L’idea di acquistare il Porto per dar vita a un punto ristoro è maturata all’inizio del 2018 – racconta Baggi –. Abbiamo avuto la fortuna di poterlo visitare all’interno, capendo meglio quanto il nostro progetto potesse essere attuabile.

È partito poi un periodo piuttosto lungo in cui, fra mille dubbi e perplessità, abbiamo effettuato il nostro personale business plan e una serie di infinite valutazioni, domandandoci se, davvero, il gioco valesse la candela. A ogni modo, nonostante tutti i conti che abbiamo fatto, a prevalere è stato il sentimento: a fine 2019, abbiamo comprato l’immobile». I lavori di ristrutturazione cominciano a febbraio 2020, ma la strada è in salita. «L’inizio non è stato fra i più rosei – spiega Filippini –, dato che, causa Covid, dopo due settimane (e per i tre mesi successivi), l’impresa ha dovuto fermare i lavori. Inoltre, al netto dei tanti cavilli burocratici, la condizione dell’edificio era terribile. Gli affreschi esterni versavano in condizioni critiche e, all’interno, essendo la casa addossata alla roccia, le infiltrazioni d’acqua avevano reso impraticabile l’accesso alle stanze. Per non parlare della tettoia: tutta da risistemare. La logistica, poi, a causa della posizione dello stabile, è stata complicata. Abbiamo dovuto avvalerci di motocarriole e persino dell’elicottero. A seconda dell’evenienza, per risparmiare, ci siamo trasformati in muratori, idraulici ed elettricisti. È stato faticoso e impegnativo». Momenti difficili che, a volte, hanno tolto il sonno ai due giovani.

«Quella del Porto era una scommessa che volevamo vincere in solitaria – dice Baggi –. Avevamo quindi deciso di non gravare sulle spalle di nessuno, ma, appena ci è parso chiaro come la spesa stesse levitando di quasi più del doppio, rispetto al preventivo precedentemente stilato, la paura si è fatta sentire. Con un mutuo da pagare, che pesava come una spada di Damocle sulle nostre teste, ci sono state notti in cui non siamo riusciti a dormire.

A un certo punto, ci siamo pure chiesti se, per caso, non avessimo fatto il passo più lungo della gamba». Ma, alla fine, i lavori proseguono e la perseveranza viene ripagata: nel mese di settembre del 2021, Lorenzo e Davide aprono il chiosco-bar «La Gabela», un nome che ricorda il dazio (la “gabella”) che era necessario pagare al traghettatore. «Ancora una volta, siamo stati un po’ sfortunati – racconta Filippini –, perché, dopo poco che avevamo iniziato l’attività, è stato chiuso il ponte, per motivi di sicurezza. Attanagliati dai debiti come eravamo, aprire il nostro bar ci pareva manna dal cielo, ma abbiamo dovuto fermarci, cercando di trasformare quest’ennesima avversità in un’opportunità, apportando le ultime migliorie agli interni, cercando sempre di preservare quanto di storico e artistico vi era custodito». Migliorie volte alla realizzazione di un altro progetto. «Lo scorso giugno, abbiamo riaperto il chiosco (ogni week-end, dalle 9 di mattina alle 10 di sera), mentre, il prossimo settembre, sempre all’interno dello stesso stabile, inaugureremo un bed and breakfast – afferma Filippini –. Le stanze, molto belle e curate in ogni dettaglio, saranno tre e sono, in realtà, già pronte. Vorremmo poi inserire anche una stufa a legno e edificare una piccola spa. Per adesso, stiamo per completare il sito internet, ma l’entusiasmo non manca». Un entusiasmo che sa di gratitudine e che cela un sogno. «Siamo molto contenti di esser riusciti a concretizzare qualcosa di nostro e di aver contribuito al rilancio di Clanezzo e alla riqualificazione della zona – spiega Baggi –.

La gente del paese, ricordandosi di come era il Porto prima della restaurazione, rimane piena di stupore. Ma l’idea di come sarebbe diventato il Porto era già nella nostra mente, già da principio. Sono sicuro che ora tutto andrà per il meglio: con gli sforzi che abbiamo fatto, non vedo altro epilogo. Certo, non ce l’avremmo mai fatta senza il supporto morale degli amici e, soprattutto, delle nostre famiglie: a loro va il nostro grazie. Quel che mi auguro, ora, è che questo lavoro diventi la nostra attività principale. A ogni modo, ciò che più mi fa star bene è l’affetto delle persone di Clanezzo». Dello stesso parere Filippini: «La gente ci ringrazia e ci dice che abbiamo salvato un luogo della memoria, quello della loro gioventù. Ormai, ci sentiamo loro compaesani. A tal proposito, credo sia significativo il fatto che, per costruire il nostro futuro, ci siamo rivolti al passato. Sempre più spesso, le persone sono ossessionate dal nuovo e non si accorgono che il perno per un domani migliore si trova proprio in quello che è stato, nella storia e nella speranza di chi, ieri, ci ha preceduto. Questo credo sia un buon modo per fare impresa ma, soprattutto, per vivere in modo più sano e felice».