“Costruire comunità è il passo fondamentale per ottenere la pace. Essa è sempre rivolta al futuro”

Costruire comunità è il passo fondamentale per ottenere la pace, ha detto ieri il vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi alla Messa pontificale in onore del Patrono Sant’Alessandro. E la pace “è innanzitutto una speranza, ed è sempre rivolta al futuro”.

Era vestita a festa la Cattedrale, e piena di gente come dall’inizio della pandemia non era più stato possibile. Pace vuol dire anche incontro tra Paesi e culture diverse, e questa condizione ieri era rappresentata anche dai celebranti sull’altare. 

Accanto al vescovo Beschi, infatti, c’erano cinque vescovi bergamaschi chiamati a svolgere il loro ministero in tutto il mondo: monsignor Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme, monsignor Paolo Rudelli nunzio apostolico in Zimbabwe,

Monsignor Maurizio Gervasoni, vescovo di Vigevano, monsignor Francesco Panfilo arcivescovo emerito di Rabaul in Papua nuova Guinea, monsignor Ottorino Assolari, vescovo emerito di Serrinhna in Brasile, monsignor Alessandro Carmelo Ruffinoni vescovo emerito di Caxias do Sul in Brasile. Intorno a loro si è stretta la comunità dei seminaristi con numerosi preti diocesani.

Anche i primi banchi riservati alle autorità cittadine erano affollati, con rappresentanti di tutte le istituzioni civili e militari, a partire dal sindaco Giorgio Gori, il prefetto Enrico Ricci, il presidente della provincia Pasquale Gandolfi, il comandante generale del corpo della Guardia di Finanza Giuseppe Zafarana.

All’inizio della celebrazione, trasmessa anche su Bergamo Tv, il vescovo ha salutato tutti con un augurio di pace, come se ne deponesse i semi proprio in quel momento, con l’assemblea riunita intorno a lui.

Ha rivolto un pensiero particolare “a tutti quelli della nostra comunità che sono provati dalla sofferenza, dai limiti, dagli impedimenti che non favoriscono la speranza, la gioia di vivere”.

Così ha messo questa speciale giornata di festa “sotto il segno del martirio di Sant’Alessandro, antico nei secoli ma sempre capace di generare ispirazioni orientate a costruire la pace”.

“Il desiderio di pace minaccia di inaridirsi”

Se parlare di pace vuol dire proiettare speranza sul futuro, “Essa – ha sottolineato il vescovo – si alimenta alla sorgente del desiderio, che sembra esaurirsi, come fosse provata da una siccità che rende arida la terra. Dobbiamo constatare che sul desiderio di pace domina il desiderio di starsene in pace, teso ad alimentare l’indifferenza”.

L’attenzione del vescovo si è concentrata sulla guerra che si combatte in Ucraina da mesi: “Ci sono state decine di migliaia di vittime, milioni di profughi, efferate violenze, distruzione di intere città, villaggi, infrastrutture di ogni tipo. Ma questo conflitto sembra entrare nel sottosuolo delle nostre esistenze. Ci colpisce più per le conseguenze che contribuisce a determinare sul nostro tenore di vita che per ciò che rappresenta per milioni di esseri umani. Accade la stessa cosa per le decine di guerre periferiche rispetto ai nostri confini che disegnano la drammatica guerra mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco”.  

Monsignor Beschi ha chiarito che “non può essere il termometro della paura ad alimentare il desiderio e la speranza di pace ma una convinzione interiore particolarmente esigente e impegnativa nel momento in cui nutriamo la consapevolezza che la pace è un bene complessivo le cui condizioni impegnano ciascuno e la comunità nel suo insieme”.

La pace come frutto di un impegno quotidiano

Non basta citare il profeta Isaia sui muri del palazzo dell’Onu a New York, se poi l’impegno di mantenere la pace sembra sbiadito: “Si è rarefatta la coscienza che la pace appartiene al futuro nella misura in cui ognuno nel presente si impegna a crearne le condizioni”.

Stiamo passando un periodo oscuro, ma non per questo bisogna “assuefarsi all’inferno”, come ha ribadito il vescovo, citando Italo Calvino: “Siamo esposti alla tentazione di diventare inferno, la tentazione di rassegnarsi alla guerra, alla violenza, al sopruso, all’ingiustizia, alla menzogna, all’odio, allo sfruttamento da parte del più forte. Le generazioni che hanno vissuto un lungo periodo di pace, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la ritengono una condizione scontata”. In realtà essa è una scelta che deve essere continuamente confermata, “un abito permanente del cuore, delle mani, dello spirito, della mente”.

Anche la pace, ha affermato il vescovo, richiede un continuo allenamento perché sia alimentata e difesa, nutrendo attraverso un costante impegno quotidiano una mentalità di pace.

I quattro pilastri di San Giovanni XXIII

Monsignor Beschi ha ripercorso i quattro pilastri fondamentali indicati nella “Pacem in terris” da San Giovanni XXIII: “Il primo è la verità, che richiede il rispetto della dignità di ogni persona e l’eliminazione di ogni razzismo. Il secondo è la giustizia, che unisce il riconoscimento dei diritti all’adempimento dei doveri. Il principio della giustizia richiede che i contrasti siano affrontati attraverso la reciproca comprensione. Il terzo è l’amore, la solidarietà operante che sostiene gli altri due principi con la cooperazione in vista del bene comune. Attraverso di essa sarebbe possibile mantenere l’equilibrio tra popolazione, terra ed economia. Partendo da qui potrebbe essere affrontato il fenomeno dei profughi, e sarebbe immaginabile intraprendere la via del disarmo dell’apparato bellico e del cuore. Quarto è la libertà che richiama ogni comunità politica alla responsabilità di lasciare autonomia alle altre di essere prime artefici della propria crescita. In questa prospettiva costruire comunità è la fondamentale condizione per la pace. Si tratta di superare un noi esclusivo e lavorare per un noi allargato”, aprendosi in particolare “agli ultimi, agli emarginati, alle persone in condizioni di non autosufficienza, a quelle limitate nella libertà, a quelle che cercano nel nostro Paese una vita migliore, quelle che scivolano in condizioni di povertà. Si tratta di ritrovare quello che unisce, per rafforzare il senso di una comunità di destino e la passione per rendere il nostro Paese un mondo migliore”.

Le elezioni, uno dei momenti più alti della vita del Paese

Il vescovo ha accennato anche al prossimo appuntamento con le elezioni politiche: “Con questo spirito vogliamo avvicinarci al prossimo appuntamento elettorale, consapevoli di partecipare a uno dei momenti più alti della vita del nostro Paese, e della responsabilità non delegabile di difendere e rafforzare la nostra democrazia come fondamentale garanzia di pace. Da credenti diciamo che la pace è dono di Dio. Il dono di Dio si chiama riconciliazione con lui, con sé stessi e con il prossimo. La riconciliazione non è solo un processo spirituale, ma diventa sociale e politico. I credenti sono testimoni di riconciliazione fino al martirio dell’incomprensione, del rifiuto, del dileggio e del disprezzo. Nessuna guerra, violenza, aggressione, umiliazione e ingiustizia può essere giustificata in nome di Dio. Non si può invocare il nome di Dio e proclamare il suo Vangelo per aggredire, devastare, umiliare, disprezzare non solo un popolo ma ogni singola persona umana. 

Vivere liberi dalla paura delle bombe, ha concluso il vescovo, è già un grande dono, ma “Il dono di Dio non è semplicemente assenza di guerra, ma è generativo di un insieme di beni: salute, accoglienza, cura della vita, conoscenza, libertà, giustizia, ecologia integrale, benessere sociale, integrazione e relazioni generative. Accogliere il dono di Dio significa tenere uniti questi beni. Il dono della pace di Dio non ha confini. La preghiera difende il cristiano fino alla testimonianza più esigente e costosa per una pace senza confini”.