Il parcheggio selvaggio fuori dalla scuola e lo sfogo inascoltato della mamma di un bimbo disabile

In genere corro a testa bassa, soprattutto al mattino. Che peso, convincere i miei figli ad alzarsi ed attivarsi. “Dai che è tardi, hai messo la merenda in cartella?!”, “Ma tu davvero vorresti uscire con quella maglietta?! Non siamo in spiaggia e ormai è autunno!”, “Sei sicuro che non dovevo firmare nulla? Nessun avviso sul diario?!”.

Quando riusciamo a uscire di casa è già una conquista. Minuti contanti, si spera che non accadano imprevisti lungo la strada. Finalmente si arriva davanti alla scuola e il delirio giunge all’apoteosi: auto ferme davanti al cancello, sulle strisce pedonali, di traverso lungo la via. Cartelle, giacche, bambini, mamme, papà, nonni, fratellini, cani, monopattini. Qualche volta, lo ammetto, è capitato anche a me di lasciare la macchina con le quattro frecce vicino al marciapiede (il ritardo è il mio incubo delle 8.30), ma dalla scorsa settimana no, garantisco che non accadrà mai più.

Avevo appena trovato un parcheggio, ero scesa di corsa coi miei figli, la campanella stava suonando, quando alle mie spalle si è sentita una donna gridare:

– “Signora, non si parcheggia nel posto dei disabili”.

– “Si faccia gli affari suoi, sto giusto un attimo, lei non immagina quante corse devo fare oggi”.

Botta e risposta, alla fine la tizia in torto se ne va gridando insulti. L’altra donna parcheggia, apre lo sportello della macchina e fa uscire il figlio disabile sulla carrozzina, fa lo slalom tra le auto ferme in mezzo alla strada, arriva a fatica davanti al cancello. Le lancio uno sguardo solidale, l’aiuto a salire su una rampa, le dico che ho assistito alla scena e che è uno schifo. Lei scoppia in lacrime. “Mi succede tutti i giorni. Ogni giorno devo lottare per trovare libero il parcheggio dei disabili. Ogni giorno qualcuno lo occupa senza minimamente porsi il problema. E quando chiedo di spostarsi mi rispondono anche male”.

Sono basita. La guardo, penso a quanto sia stato difficile per lei affrontare gli ultimi nove anni, penso a quanto sia complesso per lei restare calma e mostrare al figlio un sorriso. Penso alla signora che aveva anche da ridire. Sappiamo essere davvero disumani, incapaci di metterci nei panni degli altri, di porci due domande, incapaci di ammettere “ho sbagliato”, di chiedere scusa.

Da quel giorno faccio più caso a tutto. C’è chi lascia l’auto a bordo marciapiede e pure sulle strisce pedonali, magari anche già una decina di minuti prima del suono della campanella, della serie “tanto qui comando io”. C’è chi fa con tutta calma e lascia spalancata la portiera. C’è chi accosta quando avrebbe a pochi passi un parcheggio libero a disposizione. E c’è sempre qualcuno che parcheggia l’auto al posto disabili “perché tanto resto qui poco”.

Cosa si può fare, cosa si deve fare, chiama i vigili, segnala, sentiti inutile. Non lo so, se qualcosa cambierà. Ma mi vien da riflettere su dove stiamo andando. Come società, come “esseri umani”. Siamo chiusi, sempre più chiusi in noi stessi, nelle nostre vite che diventano ragione di tutto, nelle nostre difficoltà che non ci aprono a guardare quelle degli altri, nei ritmi serrati di un tempo folle. Eppure, ne sono certa, basterebbe poco, per cambiare prospettiva, per viver tutti meglio.