Speranza per le donne vittime di violenze e abusi. Manuela Ulivi: “Il primo passo è ascoltare” 

“Le diverse forme di maltrattamento che subiscono molte donne sono una vigliaccheria e un degrado per gli uomini e per tutta l’umanità. Non possiamo guardare dall’altra parte. Le donne vittime di violenza devono essere protette dalla società”, ha scritto Francesco sull’account ‘@pontifex 25 novembre dello scorso anno in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle Donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999.

Un anno dopo il conteggio delle donne vittime di violenza è ancora troppo alto nel nostro Paese, dramma che, purtroppo, prosegue quotidianamente in tutto il mondo. 

Per parlare della violenza perpetrata contro le donne, basata sul genere, ritenuta una violazione dei diritti umani, abbiamo intervistato Manuela Ulivi, avvocata civilista esperta in diritto di famiglia e minorile, che svolge da quasi trent’anni attività di volontariato all’interno della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (CADMI), primo centro antiviolenza italiano fondato all’interno dell’Udi (Unione donne in Italia) nel 1986, dal 2008 coordinatrice dei lavori della rete delle avvocate di D.i.Re, (Donne in rete contro la violenza), Associazione nazionale che raccoglie 80 centri antiviolenza. 

  • La violenza sulle donne è stata definita dall’ONU “un flagello mondiale” a causa della sua diffusione in tutti i Paesi. Avvocata Ulivi, è d’accordo con questa definizione? 

«Assolutamente sì, la violenza sulle donne è una problematica che si manifesta magari in modo diverso ma con caratteristiche di similarità in Afghanistan, Italia, Svezia, Stati Uniti e anche in Africa. Ed è una cosa incredibile come ci sia un filo conduttore della violenza, cioè la volontà maschile di dominio nei confronti delle donne. Ogni latitudine la esprime secondo le proprie situazioni culturali ed economiche, però la violenza sulle donne è veramente un flagello, posso confermarlo da quello che ho visto. Nei centri antiviolenza non incontriamo solo donne italiane, ma vediamo donne di diverse nazionalità, la danese, la svedese, l’africana, la cinese, che si sono accompagnate con uomini italiani o della loro stessa nazionalità».

  • Sempre più donne rispetto ad alcuni anni fa in Italia decidono di mettere fine alle violenze subite denunciando i soprusi? 

«Sì, sempre di più, perché se ne parla tanto, finalmente. Se ne parla tanto da una ventina d’anni, ma c’è stato proprio un crescendo nei centri antiviolenza. È stato scoperchiato, come dico io, “il vaso di Pandora” che ha portato alla luce quello che già c’era ma era nascosto e quindi non si vedeva. Sono sempre di più le donne giovani a denunciare i soprusi subiti, prima le donne sopportavano in silenzio le violenze, restando con il violento per tutta la vita. Oggi se ne parla tanto e quindi nei centri antiviolenza sono cominciate ad arrivare donne di 40/50/60 anni che sopportavano da anni ed erano ormai in uno stato pietoso. Oggi arrivano tante donne giovani tra i venti e i trent’anni che si trovano nel gorgo di una violenza vivendo con uomini giovani possessivi e ancora dominatori. Mi indigna e mi stupisce che giovani uomini possano ancora mettere in atto determinate forme di potere. Eppure lo fanno».  

  • Quando si ritiene di essere vittime di violenza fisica, sessuale, psicologica, anche economica, vale sempre la prima regola, anche se si tratta di marito, convivente o fidanzato, cioè: denunciare subito? 

«No, se non si è in una situazione di immediato pericolo, e allora lì si deve andare o al Pronto Soccorso di un ospedale o in un luogo di Pubblica Sicurezza, prima consiglio di rivolgersi a un centro antiviolenza per parlare della violenza subita con persone competenti, preparate. È difficilissimo svelare ciò che si sta vivendo, c’è paura, vergogna. Se la donna vittima di violenza non trova l’ascolto giusto, si sente giudicata e quindi c’è il rischio che si richiuda a riccio. La denuncia, nel senso tecnico del termine, fa paura, perché la donna deve andare davanti a un poliziotto, è un passo che va preparato, più che meditato, la donna deve sapere a cosa va incontro denunciando».

  • L’incontro con la realtà delle donne vittime di violenza di genere ha segnato la sua attività professionale e la sua vita personale? 

«Sì, io nasco giuslavorista, quindi facevo tutt’altro tipo di diritto, mi è stato chiesto anche di ragionare sulle leggi, che allora peraltro non c’erano, siamo state anche sostenitrici di nuove leggi specifiche contro la violenza nei confronti delle donne. Ha anche veicolato la mia professione verso i procedimenti di famiglia che prima non facevo. Ha anche cambiato la mia vita personale, non si può entrare dentro tanta sofferenza senza cambiare, sarebbe disumano. Sono anche diventata insofferente verso queste situazioni, quando ne senti tante di storie tragiche lo diventi per forza. Del resto sono sempre stata una donna battagliera e continuo a portare avanti le mie battaglie. In famiglia sono sempre stata sostenuta per le cose che faccio».   

  • Ha scritto il libro Vive e libere. La violenza sulle donne raccontata dalle donne (Edizioni San Paolo 2019, Prefazione di Lucia Annibali) descrivendo la realtà delle donne maltrattate e i percorsi di rinascita di molte di loro. Dal testo si evince che dalla violenza si esce grazie alle relazioni al femminile. Ce ne vuole parlare?

«Le relazioni al femminile sono quelle più potenti, quelle in cui ci si confronta come competenti di un’esperienza che tocca tutte, che è quella di essere disturbate nella propria sfera privata da uomini che si vogliono imporre psicologicamente, fisicamente, economicamente. Non c’è donna che non abbia subito molestie, per esempio che non sia stata toccata sul bus, non sia stata avvicinata in maniera sgradevole, non sia stata protagonista di avances pesanti, ecc… Per non parlare di quei piccoli e grandi sgarbi subiti sul posto di lavoro. Insomma, ci sono delle esperienze che ci accomunano in quanto donne. Basta dire: “ti capisco”. Questo è un modo diverso di accogliere le donne vittime di violenza».

  • Il caso Saman Abbas, la ragazza pachistana uccisa dai famigliari in provincia di Reggio Emilia, all’età di 18 anni nel maggio 2021 ha sconvolto l’Italia. Delitto d’onore o femminicidio? 

«Direi femminicidio, perché il femminicidio è la definizione del reato perpetrato ai danni di una donna in quanto donna. Questo reato è stato realizzato perché Saman era una donna che non poteva permettersi di vivere all’occidentale e non poteva permettersi di vivere una relazione con una persona diversa da quella che le voleva imporre la famiglia». 

  • Quali altre misure chiederebbe al Parlamento per contrastare la violenza contro le donne?

«Non chiederei ulteriori misure, quello che può fare il Governo è portare avanti le leggi che ci sono già, non disperdere le energie che possono essere riservate ai centri antiviolenza per centri di recupero degli uomini maltrattanti, che pure vanno bene ma devono essere ben valutati su quanto incidano rispetto alle situazioni di violenza. Culturalmente c’è tanto da fare, ma questo non è il ruolo della legge, è una ruolo sociale e generale che ci dobbiamo assumere un po’ tutti». 

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