“Il nostro Generale”, la fiction su Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il figlio Nando: “Un esempio di onestà, servizio e impegno”

La sera del 3 settembre 1982, il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto dei Cento giorni a Palermo, veniva colpito a morte in via Isidoro Carini insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, in quel momento al suo fianco. Nell’agguato mafioso venne ucciso anche l’agente di scorta al Generale, il poliziotto campano Domenico Russo, medaglia d’oro al valor civile alla memoria, che seguiva il prefetto nella A112 bianca guidata dalla moglie. Vennero condannati all’ergastolo come mandanti di questa barbara strage  i boss mafiosi Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. 

Quarant’anni dopo, una fiction in quattro episodi “Il nostro Generale”, regia di Lucio Pellegrini e Andrea Jubrin, che sarà trasmessa da Rai1 a partire da lunedì 9 gennaio (le altre puntate andranno in onda martedì 10 gennaio, lunedì 16 e martedì 17 gennaio), racconta gli ultimi dieci anni di vita di Carlo Alberto dalla Chiesa interpretato da Sergio Castellitto, che presta il suo volto e la sua bravura per celebrare un autentico servitore dello Stato che gli italiani non hanno mai dimenticato. 

Insieme al figlio secondogenito Nando dalla Chiesa, ordinario di Sociologia della criminalità organizzata, presso l’Università degli studi di Milano di cui dirige anche l’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata, già parlamentare della Repubblica e sottosegretario all’Università, presidente onorario di Libera, scrittore e sociologo, ripercorriamo la figura del Generale dalla Chiesa, l’uomo simbolo della lotta alla mafia.

Prof dalla Chiesa, carabiniere, figlio e fratello di carabiniere suo padre nato a Saluzzo il 27 settembre 1920, trascorse la sua vita a combattere la malavita del nord, la mafia siciliana e le Brigate rosse. Il 6 aprile 1982 venne nominato dal Consiglio dei Ministri presieduto da Giovanni Spadolini Prefetto di Palermo. Scelse lui di andare a Palermo? 

«Mio padre si era sentito isolato al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri quando era andato a Roma come Vicecomandante generale dell’Arma, era stato obiettivamente emarginato, invece che essere accolto con affetto ed entusiasmo. Mi chiamò un giorno per dirmi che quello che gli avevano dato da fare quel pomeriggio era di immaginare i titoli dei temi per gli allievi ufficiali… ricordo bene quella telefonata. Essendosi verificata questa situazione mio padre a un certo punto, anche per l’umiliazione che stava subendo, pensò che probabilmente sarebbe stato più sereno lontano dall’Arma. Questo dovette costargli molto, sapendo quanto amasse gli alamari e la sua storia nell’Arma. Quindi mio padre fece sapere al Governo che era disponibile a prendere altri incarichi. Diversi ministri furono sensibili a questa richiesta, si trattava di valorizzare a livello nazionale uno dei maggiori investigatori e anche dei più carismatici capi delle Forze dell’Ordine. Gli proposero tre cose: la direzione dell’Amministrazione penitenziaria, la Prefettura di Napoli o la Prefettura di Palermo. Mio padre scelse la Prefettura di Palermo, perché pensava di essere più utile avendo già avuto una lunga attività a Palermo come Comandante della Sicilia occidentale quando era colonnello, oppure quando era stato capitano a Corleone. Insomma, mio padre la Sicilia la conosceva bene e ne aveva anche una certa nostalgia. Diceva che era come il mal d’Africa per lui. Nel luglio del 1982, mio padre sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro. Lei voleva raggiungerlo a Palermo, mentre lui era contrario a causa dei rischi. “Questa cosa si può fare solo a patto che ci sia un matrimonio”, disse mio padre». 

“Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza”. Nella sua ultima intervista concessa a Giorgio Bocca e apparsa su La Repubblica il 10 agosto 1982, meno di un mese prima della morte, il Generale dalla Chiesa, dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi necessari per la lotta alla mafia. I promessi “poteri speciali” non arrivarono mai. Suo padre sapeva di essere in pericolo? 

«Questo sì e forse lo capì più di tutti. Mi rimprovero di non averlo capito ma per una ragione. Essendosi così scoperti i suoi avversari, soprattutto a livello politico, non ritenevo possibile che lo uccidessero. “Se lo uccidono, è come firmare il delitto”, pensai. Troppo avevano detto in pubblico contro di lui.  Non avevo calcolato che invece è possibile firmare un delitto senza che gli altri abbiano intenzione di leggere la firma. Ero certo che il livello degli attacchi, della recalcitranza del sistema politico siciliano e la freddezza del sistema politico nazionale non avrebbero consentito una conclusione così, perché sarebbe stato evidente il sistema delle responsabilità. Il Maxi processo ha messo a fuoco le responsabilità, del resto era tutto sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Dopo decenni su nostra insistenza venne fuori che la sera del delitto nella A112 c’erano sotto il sedile dei faldoni che riguardavano inchieste sulla mafia a Palermo. Ora, se uno mette i faldoni sotto il sedile è perché non li vuole far vedere, perché non si fida a farli vedere mentre esce dal cancello della Prefettura di Palermo, se se li porta a casa vuol dire che ci sta lavorando. Quei faldoni che sono stati repertati ma che nessuno ha visto, illustravano rapporti di complicità, di coinvolgimenti. Pensando all’agenda rossa di Paolo Borsellino, ci siamo domandati noi figli dove fosse finita la borsa di nostro padre».

Subito dopo l’omicidio del generale dalla Chiesa, della moglie e dell’agente della polizia, qualcuno posizionò un cartello su di una facciata di una casa in via Isidoro Carini con la scritta “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. In quale modo possiamo onorare noi semplici cittadini la memoria di questo uomo esemplare? 

«La memoria si onora in  tanti modi, in primo luogo ricordando le persone e poi cercando di metterne in pratica gli insegnamenti. A volte semplici, ma esigenti».

Nel volume “Carlo Alberto dalla Chiesa. Un papà con gli alamari” (San Paolo Edizioni 2017), insieme alle Sue sorelle Simona e Rita, compone il ritratto privato di un padre e di un uomo dal comportamento eroico. Com’era come padre? 

«Era un padre molto affettuoso e attento. Eravamo molto seguiti sia da nostra madre sia da nostro padre, anche se spesso era fuori per lavoro. Quello tra i nostri genitori è stato un grande amore, ci hanno insegnato l’amore per la famiglia, ma ci hanno anche insegnato che la famiglia non era fatta per tutelare gli interessi dei suoi membri, ma per servire meglio il proprio Paese. Solo in questo modo noi figli siamo riusciti ad accettare con naturalezza che nostro padre rischiasse la vita e portasse anche noi dentro un film pericoloso. A noi sembrava naturale. Nostro padre si interessava delle nostra attività scolastiche e poi universitarie. Parlava, discuteva, a volte arrabbiandosi, era un padre molto dentro la nostra vita con tante piccole attenzioni che normalmente non si hanno. Quando eravamo bambini una mattina lo trovai fuori dalla porta di casa, era rimasto tutta la notte sul pianerottolo, non aveva suonato il campanello per non svegliarci».  

La serie “Il nostro Generale” racconta la nascita del Nucleo Speciale Antiterrorismo voluto dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa per combattere le Brigate rosse fino ad arrivare al 3 settembre 1982. In fase di scrittura e di realizzazione gli sceneggiatori si sono avvalsi anche dell’aiuto di Voi figli? 

«Sì, una degli sceneggiatori, Monica Zappelli è stata anche una mia collaboratrice parlamentare tanti anni fa. Insieme a Claudio Fava e Marco Tullio Giordana ha vinto il David di Donatello per la migliore sceneggiatura per il film “I cento passi nel 2001”. È stata molto attenta e scrupolosa. Abbiamo concordato alcune licenze poetiche che non banalizzano, ma rendono più bello il lavoro. Credo che piacerà molto, mi hanno detto che l’interpretazione di Castellitto è molto bella».

Quanto è importante ricordare il sacrificio, lo straordinario valore della testimonianza di Suo padre soprattutto nei confronti delle giovani generazioni che forse non lo conoscono? 

«Credo sia importante sapere che esistono delle Istituzioni su cui si può avere fiducia, che sono fatte di determinazione, di coraggio e che sono al servizio degli altri. Ho notato anche all’Università che i giovani quando entrano in contatto con queste figure, come quella di mio padre, si affezionano molto, le ricordano, anche se prima non lo conoscevano. E se le vanno a studiare».