“Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani. L’uomo di fronte alle sue ossessioni, in balìa delle onde del destino

Una scena dello spettacolo "Moby Dick alla prova" di Elio De Capitani

C’è la storia senza tempo di un capitano e della sua caccia inesausta al capodoglio bianco all’origine di “Moby Dick alla prova”, andato in scena con successo nei giorni scorsi al Teatro Donizetti con la regia di Elio De Capitani nell’ambito della Stagione di Prosa. Ma c’è anche la magia del teatro per cui, in una prova, la superbia di Re Lear può trasformarsi, cambiando i panni, nell’ossessione di Achab.

Una storia di odio e vendetta che fa affiorare la parte più oscura dell’animo umano, la sfida di un viaggio che mette l’uomo davanti a se stesso, alle onde del destino, all’impossibilità di conoscere e dominare quell’infinito che è, in fondo, il mare.

Trasportati dal vento delle parole

A creare maggiore profondità e diversi livelli di lettura contribuisce qui la “messa in scena”. Ciò che stiamo guardando, infatti, è una compagnia teatrale che interrompe le prove di “Re Lear” di Shakespeare per provare “Moby Dick”, una situazione in cui ognuno può, ogni tanto, togliere la maschera e guardare il suo personaggio “da fuori”, in cui comunque, alla fine, ci si ritrova trasportati, magicamente, dal vento delle parole.

Leggiamo in filigrana lo sguardo del regista sull’insensatezza e la follia del capitano Achab nell’inseguire la sua vendetta e nel lottare nonostante gli ostacoli: la sua condizione di uomo ferito, la natura, le tempeste, perfino i legami di sangue che lo richiamano da lontano, per opporsi a una creatura come il capodoglio “che non ha volontà” e che ha ucciso soltanto per difendersi.

I limiti e le ossessioni che ci governano

Ma ci porta oltre la poesia del testo di Orson Wells, nella armoniosa, scorrevole traduzione di Cristina Viti, con il contrappunto dei canti dei marinai, accompagnando lo spettatore in un incantesimo che trasforma la scena: ci sono ancora i carrelli di ferro, le casse, le sedie nude, un arredo essenziale e minimalista, ma noi vediamo la nave, con le vele gonfiate dal vento, e verso la fine, in un crescendo di tensione e di pathos, perfino il capodoglio, che per esplicita ammissione del regista “non si può portare in scena”.

Sopravvissuti, infine, come il marinaio Ishmael, al terribile naufragio, vediamo noi stessi, con i nostri limiti, le ossessioni che ci governano, il destino che continua a interpellarci, anche dalle feritoie di uno spettacolo teatrale, fra gli applausi.