Una rosa di perline di Venezia come bomboniera

Il documento veneziano più antico in cui troviamo minuziose descrizioni di fiori di perline, utilizzati per ricamare preziose tovaglie e oggetti d’arredamento, è l’Hypnerotomachia Poliphili, letteralmente “Combattimento amoroso in sogno di Polifilo”, un romanzo allegorico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499. 

Ma è soprattutto nell’Ottocento che i fiori di perline si staccano dal ricamo e diventano un elemento autonomo di decorazione da disporre nei vasi.

Allora a Venezia la lavorazione dei fiori di vetro era un’industria vera e propria, nata con un duplice scopo:  innovare la produzione vetraria e offrire lavoro in casa alle impiraresse, le donne che infilavano le perline.

Verso la fine dell’Ottocento le composizioni floreali dominano nei saloni da ricevimento, su vassoi, portafiori, specchi, portaritratti. I fiori preferiti sono mimose, begonie, glicini, violette, tulipani e lillà.

La tradizione floreale ha iniziato a decadere alla metà del Novecento e da allora sono rimaste poche le donne che persistono nel tramandare l’arte dei fiori di Venezia a figlie e nipoti.

In occasione della Prima Comunione della mia nipotina Sofia, sto preparando delle rose bianche con perline sfaccettate assai luminose. Ogni rosa è composta da quattordici petali, sei sepali e da un rametto di tre foglie.

Per la lavorazione, si inizia tagliando segmenti di un metro e 40 cm di filo zincato del 16, quanti sono i petali della rosa. Più corti sono i segmenti da utilizzare per i sepali.

Ci sono tre ordini di petali: piccoli, medi e grandi, uguali nella forma, ma differenti per il numero di giri che si fanno attorno al “palo” centrale. 

Ultimata la composizione dei petali, dei sepali e delle foglie, il tutto viene assemblato, dando forma alla rosa, che viene fissata su un robusto gambo di zinco sul quale verrà poi avvolto un filo di seta.

La mia “bibbia” è stato il libro “I fiori di Venezia” di Giovanna Poggi Marchesi (Mondadori).