I “giovani in disparte” interrogano la società degli adulti: la fatica di educare

Incomincia ad arrivare sul tavolo dell’opinione pubblica una massa di dati e di osservazioni circa quel fenomeno che i giapponesi hanno denunciato per primi: lo Hikikomori, lo “stare in disparte” di quella fascia di ragazzi, che oscillano tra i 15 e i 19 anni. 

I dati forniti dall’Ospedale Gaslini di Genova, nel corso di un incontro organizzato con la Curia vescovile di Genova, dicono che dal 2019 al 2022 sono quadruplicati i ricoveri per disturbi mentali tra i bambini e gli adolescenti, quali tentativi di suicidio, autolesionismo, anoressia, bulimia. 

A questi dati si aggiunge la Ricerca “Vite in disparte -Prima indagine sul ritiro sociale volontario nella popolazione scolastica italiana”, condotta nel 2021 dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa. 

E anche quelli dell’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze (EMCDDA) di Lisbona sul consumo di sostanze psicoattive e su altri comportamenti a rischio nella popolazione scolastica di età tra i 15-19 anni. 

Da ultimo, ieri nella sua Rubrica “Il Caffè” Massimo Gramellini titola “La scuola dell’ansia” il suo commento, relativo alla notizia che proviene dal Liceo Berchet, che dall’inizio dell’anno si sono già ritirati cinquantasei studenti e che oltre trecento hanno dichiarato di soffrire d’ansia e di sentirsi vessati dagli insegnanti. E poiché non appare pensabile che gli insegnanti di oggi siano diventati più esigenti di quelli di ieri, il giornalista avanza l’ipotesi esplicativa che “a essere cambiata è la percezione della realtà da parte dei ragazzi”.

Le notizie che affluiscono direttamente dalle scuole segnalano l’insorgenza diffusa di attacchi di ansia e di panico e incapacità crescente di reggere lo stress delle attese alte e dei risultati più bassi. Così può accadere che in una scuola di questo Paese una ragazza pianga per l’intera mattinata, perché si aspettava un 9 in Matematica, invece ha preso solo 8…

Gli Hikikomori italiani, frontiere di solitudine

Intanto, i ricercatori segnalano che i dati non sono ancora una base scientifica adeguata per fornire una valutazione realistica del fenomeno. Dei 12.468 questionari distribuiti nelle scuole, quelli compilati e ritenuti idonei per la valutazione sono stati 12.237. Non pochi.

Ma l’anno 2021 è stato l’anno dell’effetto-COVID, così che risulta arduo distinguere le tendenze di fondo da quelle indotte e/o amplificate dall’isolamento forzato dovuto alla pandemia.

I ricercatori del Gruppo Abele riconoscono che non è tuttora facile distinguere tra le cause dovute ai “tradizionali” indicatori dell’abbandono e della dispersione – totale mancanza di interesse e motivazione, situazioni sociali e familiari impedenti, insuccesso ripetuto e cogenza di sottrarsi a una situazione di frustrazione quotidiana, contrapposizione alla volontà genitoriale – e quelle collegate “ a profonde sofferenze relazionali nei confronti dei coetanei, da cui deriva un vissuto di grave inadeguatezza personale e di insostenibilità della propria esposizione a scuola”. Né basta, ai fini di ricerca, la “certificazione di ritiro sociale” rilasciata dalle ASL. 

L’Associazione nazionale “Hikikomori Italia” stima il fenomeno complessivo intorno alle 100.000 persone distribuite su tutto il territorio nazionale, età media di 20 anni, durata media di “eremitaggio sociale” di 3 anni, età di insorgenza intorno ai 15 anni. L’87% sono maschi. Solo la punta dell’iceberg? Ora che il fenomeno sta entrando lentamente sotto la lente pubblica, arriveranno ricerche e dati.

Costruire la percezione della realtà

Si tratta, occorre tenerlo ben presente, di fenomeni di “male di vivere” dei giovani di diversi livelli di gravità: un conto è l’autoisolamento triennale, un conto i NEET, un conto il pianto per un 9 mancato. 

Intanto, partiamo pure dall’osservazione di buon senso di Gramellini: “a essere cambiata è la percezione della realtà da parte dei ragazzi”. Ma chi costruisce la percezione della realtà dei nostri ragazzi? Il processo di costruzione della percezione della realtà vede in campo molti protagonisti. In primo luogo, la storia del mondo, che cambia incessantemente.

La globalizzazione ha proposto una nuova forma di alienazione più profonda e omnipervasiva di quella classica denunciata da Marx. Abbiamo la sensazione di aver perso il controllo delle nostre vite, che paiono decise da forze potenti e oscure dell’economia, della finanza, del clima.

E poi sono evolute le tecnologie con le quali osserviamo il mondo e costruiamo le relazioni sociali, entro le quali incontriamo/percepiamo la realtà. Poi, le filosofie. Si è venuta affermando a livello di massa l’idea che la realtà stessa è una costruzione soggettiva. La realtà si può/si deve creare.

Come a dire: la realtà non é più un vincolo, di cui prendere atto, un nodo da sciogliere pazientemente con agili dita. No, la realtà è ciò che io desidero e io voglio che sia. Ora, questa percezione della realtà come creazione soggettiva è un prodotto della coscienza giovanile piegata dalle innovazioni tecnologiche della comunicazione o è un’ideologia del mondo adulto oggi?

La soggettivizzazione del mondo nasce  da molte cause: dalla sensazione di onnipotenza della scienza e della tecnologia, dalla morte presunta di Dio, dalla caduta del senso della propria finitudine, dal primato gnostico della Mente sul Corpo – vedi filosofie transumaniste e post-umaniste – che sognano l’immortalità dell’Io, una volta che ci saremo liberati dalla zavorra della corporeità.

L’altro come limite contro cui si urta

In questo universo mentale, l’Altro è divenuto un limite contro cui si urta, un ostacolo alla realizzazione del Sé. Se è così, le relazioni che sono la base delle famiglie, delle comunità, delle società umane, delle nazioni perdono il proprio fondamento, sono free floating nella storia del mondo.

Non c’é né psicologo né psichiatra né sociologo né docente né dirigente scolastico che possa aggiustare gli sbreghi relazionali, rimediare agli stress, trarre fuori dalla solitudine i nostri adolescenti, se i ragazzi non vengano accompagnati quotidianamente dai piccoli gesti della famiglia, della scuola, delle comunità e associazioni culturali e sportive, dove i ragazzi possano apprendere la responsabilità, la disciplina, le sconfitte e le vittorie, cioè il rapporto con la vita reale.

Sì, si può educare alla percezione realistica della realtà. Occorre solo che gli adulti esercitino la responsabilità e la fatica quotidiana dell’educare. I “giovani in disparte” interrogano la società degli adulti. Ne costituiscono il suo lato in ombra.

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