I voti? Sì! Un dibattito all’Università di Bergamo

Ad ogni scadere di quadrimestre scolastico e ad ogni vigilia di esami insorge il dibattito, che dura almeno dal ’68: abolire i voti a scuola?

Le motivazioni sono varie. La principale è che i ragazzi manifestano un disagio crescente, con fenomeni di ansia, di stress, di crisi di panico. Dal Liceo Berchet di Milano al Liceo Morgagni di Roma, da molti Istituti scolastici si leva lo stesso grido di dolore. La cronaca registra casi di suicidio di adolescenti.

È passato qualche secolo da quando il ragazzo rappresentato nella vignetta secentesca dell’Imbuto di Norimberga se ne stava docilmente seduto su una sedia, serrato tra due maestri che gli infilavano nella testa, appunto mediante un imbuto, le lettere dell’alfabeto e i numeri della matematica.

Quel ragazzo è diventato irrequieto. Il disagio didattico è, infatti, in crescita nelle scuole, allorché si arriva alle forche caudine dei voti e degli esami, fino a trasformarsi in disagio esistenziale.

Ciascun Istituto scolastico si arrabatta come può, stretto, da una parte, tra la pressione delle famiglie, sempre più intrusive, e degli studenti, sempre più fragili, e dall’altra parte, dai vincoli burocratico-amministrativi ministeriali, che prevedono una quantità fissa di verifiche/interrogazioni a quadrimestre e gli esami finali. Il tutto con il convitato di pietra del valore legale del titolo di studio. 

Gli “antidoti” al disagio studiati dalle scuole

Che cosa fanno le Scuole? Molte procedono alla diminuzione del carico didattico, mediante la sostituzione della lezione frontale con i “progetti” e con sempre più numerose iniziative extra-curriculari, tra cui i viaggi.

Oppure riducono al minimo il numero delle verifiche o ricorrono a tecniche di valutazione che non siano l’interrogazione frontale: prove scritte, quiz, questionari, “debate”. Oppure, sperimentano, come in alcune sezioni del Liceo Morgagni di Roma, l’abolizione di fatto delle verifiche per spingerle solo a fine anno. 

La questione del voto è una matassa di molti fili. Ad ingarbugliarla contribuiscono l’ideologia del “diritto al successo formativo”, il nuovo mito dell’inclusione, il facilismo imperante, indotto dai social-media, per il quale il sapere non è più frutto di conquista faticosa, ma scienza “infusa” via Google. Che è appunto la moderna versione dell’imbuto, di cui sopra.

Proviamo, dunque, a isolare i singoli fili per sbrogliare la matassa.  

Qual è il fine della scuola? Mettere nello zaino di un ragazzo/a i saperi essenziali, che servono per capire il mondo e per inoltrarvisi, con una mappa alla mano.  Si tratta dei saperi/competenze di cittadinanza: Lingua e linguaggi, Storia, Matematica, Scienze. Si dovrebbe aggiungere Diritto e Economia.

Che cosa c’è nello zaino al termine degli studi

Quando il ragazzo/a esce dalla scuola, lui, per primo, e la sua famiglia e la società che lo attende al varco – studi superiori, mercato del lavoro – hanno diritto di sapere che cosa effettivamente si trovi nello zaino. Questa operazione si chiama verifica/certificazione.

L’idea che il ragazzo/a attraversi gli anni scolastici come una leggiadra libellula in un giardino a primavera, senza che qualcuno gli dica, in base a verifiche scadenzate, qual è la sua verità, quale il suo livello di acquisizione dei saperi fondamentali è un’idea irresponsabile e suicida per i ragazzi e per il Paese.

A meno che la famiglia pensi che il patrimonio cognitivo sia secondario, perché quello che conta effettivamente è quello socio-economico-relazionale. Sempre di meno, si dovrebbe sapere. 

Esistono varie tecniche di verifica e sono state pressoché tutte quante sperimentate. Ma, per quanto vi si giri intorno, la verifica è necessaria ed è tanto più efficace quanto più è netta e non lasci scampo ad ambiguità. I numeri hanno, da sempre, questa caratteristica ontologica della nettezza. La verifica “numerica” rigorosa è un esercizio rischioso e faticoso per chi la fa e per chi la “subisce”.

Il gesto fondamentale della responsabilità educativa

Ma è il gesto fondamentale della responsabilità educativa che gli adulti a ciò deputati – gli insegnanti – si assumono nei confronti dei ragazzi, per il loro bene e per quello del Paese. Si può decidere di farne una al quadrimestre, due all’anno.

C’è, in effetti, anche una domanda patologica dei ragazzi di verifica continua, quasi che ad ogni passo si debbano accertare di non mettere in fallo il passo successivo.

È l’ossessione dei crediti, indotta dal sistema universitario. Ma ciò detto, la verifica attraverso i voti resta un passaggio educativo e cognitivo fondamentale. Educativo, perché essa costringe ad anticipare e a sperimentare da subito – nella misura in cui il periodo scolastico è già vita reale, non separata dal mondo – l’impatto con la realtà della vita, nella quale ci sono felicità, dolori, ansie, sacrifici e sorprese. 

Ragazzi fragili? Sì, perché la generazione dei genitori, cresciuti negli anni ’70, quelli dell’espansione dello Stato sociale, sta fragilizzando i propri figli, proiettando su di loro la visione di un mondo fatto di diritti acquisiti non negoziabili, di doveri dello Stato nei loro confronti, di aspettative indefinitamente crescenti.

Le famiglie italiane stanno promettendo ai loro figli  “l’isola che non c’è” e che non ci sarà mai. Le conseguenze psicologiche sui figli sono facilismo, depressione e bullismo, tre facce delle stesse illusioni/delusioni.

Gli interessi dei singoli e il destino del Paese

Le istituzioni scolastiche si stanno lentamente piegando a questo mood. Resiste una generazione più anziana di insegnanti. Ma i dirigenti sono stati i primi a cedere alla pressione invasiva e facilista delle famiglie. Ne va del loro posto, se il numero degli alunni-clienti scende sotto una soglia, che oscilla dai 500 ai 300 alunni, a seconda delle condizioni.

Perciò, a loro volta essi esercitano pressioni sui Consigli di classe in occasione degli scrutini.  Accade anche, ma più tacitamente, nelle Università. Tutti pensano di salvare le proprie vite, ma stanno perdendo l’anima del Paese.

È questa divaricazione tra gli interessi presunti, ma immediati, delle famiglie italiane e il destino del Paese, che è stata denunciata da Scotto di Luzio e da Galli della Loggia in un recente dibattito all’Università di Bergamo. La politica, ben lungi da scoraggiarla, l’ha “democraticamente” rappresentata.

Come a dire: la Scuola è stata abbandonata dalla politica alla deriva di una società che sta rapidamente invecchiando e correndo verso il declino. Perché piangere, allora, lacrime di coccodrillo se “l’ascensore sociale” si è trasformato in “discensore sociale”? Avanti tutti insieme verso un declino… inclusivo. 

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