Don Attilio Rossoni di Colognola: “Vorrei essere un prete capace di ascoltare”

Ascoltando don Attilio Rossoni, vengono quasi in mente le ultime parole del parroco di Ambricourt (protagonista del «Diario di un curato di campagna» di Georges Bernanos): «Tutto è grazia».

Già, perché nelle sue parole si può scorgere una profonda serenità. La serenità di chi, dopo aver a lungo cercato, ha finalmente trovato, citando Rilke, una «fertile riva tra pietra e corrente» grazie alla quale potersi sentire a casa. Un sentire, per don Attilio Rossoni (che il prossimo 28 agosto compirà 40 anni), incarnato dal cammino vocazionale che, sabato 27 maggio, presso la cattedrale di Bergamo, si concretizzerà nell’ordinazione sacerdotale.

«Sono cresciuto a Bergamo, nel quartiere di Colognola – racconta don Attilio –, una zona periferica ma non per questo poco vivace, anzi: direi, al contrario, un quartiere molto attivo, sia da un punto di vista religioso che sociale. Dopo la scuola media, mi sono iscritto all’odierno liceo delle Scienze umane “Secco Suardo”. Dal 2003 al 2005, invece, ho lavorato come tecnico di laboratorio presso una ditta di Seriate, poi, dal 2005 fino al 2014, tramite una cooperativa, ho fatto l’assistente educatore, a Urgnano». Eppure, colui che sarebbe poi diventato don Attilio non è contento.

«Alla sera, tornavo a casa e non ero felice – spiega don Attilio –. Mia mamma indovinava il mio malessere e, quasi stupita, mi diceva: “Hai tutto, ma hai sempre un punto di domanda in viso. Cosa ti manca?”. Aveva ragione, non mi mancava nulla: a trent’anni, avevo amici, affetti e una professione. Nonostante ciò, avvertivo, dentro di me, come un vuoto. Non un dolore, ma il sintomo tangibile ed evidente di un desiderio inappagato».

Un desiderio che ha un nome: Gesù Cristo. «La vocazione, per me, ha significato dare una forma a quel vuoto che mi portavo dentro da un po’ – afferma don Attilio –, a quel pezzettino che mi mancava per potermi sentire davvero completo. Sono nato e cresciuto in una famiglia cattolica che, soprattutto tramite le figure dei miei nonni, ha saputo trasmettermi la fede, fra l’altro con molta discrezione, curiosità e libertà, senza imposizioni o costrizioni di sorta. Una fede che mai ho abbandonato. Eppure, abbracciare la vocazione ha voluto dire riapprodare a un sentimento religioso che avevo da bambino e che, dopo essersi forse smarrito per strada, è riapparso in me forte e deciso. Ho avvertito quindi il bisogno di fermarmi, di cambiare strada e di interrogarmi sulla vita che stavo conducendo».

Nel 2014, don Attilio incomincia la Scuola vocazioni giovanili presso la comunità missionaria «Preti del Sacro Cuore» per poi iniziare, nel 2015, il percorso del seminario. Durante il primo anno, il sabato pomeriggio e la domenica sera presta servizio nelle parrocchie di Carona, Foppolo e Valleve; il secondo anno, è invece a Monterosso mentre il terzo anno lo occupa con l’insegnamento presso il liceo del seminario.

Il quarto anno, viene inviato a Comun Nuovo e qui vi rimane fino a tutto il quinto anno di Teologia. Avendo preso per ben due volte il Covid, chiede, in accordo con i suoi superiori, di poter prendere un anno e mezzo di riflessione.

Viene affidato alla comunità di Seriate, in cui tutt’ora risiede. «Il Covid, sicuramente, mi ha spaventato – dice don Attilio –, ma la richiesta di una pausa è stata causata, più che altro, dal fatto che la malattia mi aveva debilitato fisicamente. Avevo davvero bisogno di riprendermi. Col senno di poi, ho comunque compreso come quella brutta esperienza mi abbia formato, mi abbia aiutato a crescere e mi abbia permesso di guardare le cose da una prospettiva differente, attraverso uno sguardo diverso».

Ma don Attilio non rimpiange nulla della sua vita precedente e certo non si dispiace di aver impiegato del tempo prima di capire quale fosse la strada giusta da intraprendere.

«Le esperienze lavorative, assai diverse fra loro, sono state fondamentali e, da un punto di vista umano, decisamente arricchenti – afferma il diacono –. Entrambe mi hanno consegnato uno spaccato di vita molto importante, permettendomi di toccare con mano le varie fragilità dell’uomo. Un’altra esperienza che mi ha segnato nel profondo è stato il viaggio missionario che ho fatto, nel 2004, in Africa, a Bujumbura, in Burundi. Mi ricordo ancora di quello che mi capitò in un villaggio sperduto, distante dalla città. Era l’ora di pranzo e stavamo visitando, io e uno dei padri missionari, una famiglia composta da una sola donna adulta e undici bambini. La signora era rimasta sola perché il marito, la sorella e il cognato erano stati uccisi a causa della guerra civile. I suoi bambini e quelli della sorella stavano crescendo con lei. Quella donna, guardandoci negli occhi, ci disse: “Io non ho nulla da offrirvi per pranzo, ma per saziarvi vi offro il mio cuore e quelli dei miei undici figli, perché possiate riempirvi del nostro affetto”. In quel frangente, sentì estremamente vicina la presenza di Cristo, regista del mio cambiamento».

Un cambiamento, quello di don Attilio, che, in un certo senso, è atto rivoluzionario ma, prima di tutto, un elogio della lentezza e della mitezza. «Viviamo in un’epoca frenetica, in cui bisogna correre, bruciare le tappe, essere sempre in competizione, connessi e sul pezzo e, naturalmente, avere successo – spiega don Attilio –. Penso che andare contro questa idea di realtà (proposta sempre più spesso dai social e dalla tv) sia un valore aggiunto. L’uomo deve essere in grado di ritagliarsi del tempo, di darsi tempo. Un tempo che non deve essere solo cronologico ma anche interiore, se così si può dire. Sembra strano in una società come la nostra dove anche ai preti, a volte, viene richiesta la performance, eppure è importante, se si avverte la necessità, avere l’occasione di fermarsi, riprendere in mano la propria vita per recuperarne il senso umano più profondo. Anche per questo, il santo al quale sono più affezionato è san Giuseppe, poiché, con molta semplicità, ci ha insegnato che si può fare anche stando in silenzio e che si può essere spettatori e osservatori dei fenomeni senza per questo soffocare quest’ultimi con parole sconclusionate o inopportune».

Alle 10.30 di domenica 28 maggio, don Attilio celebrerà la sua prima messa nella chiesa parrocchiale di San Sisto in Colognola. «Mi auguro di essere un prete capace di ascoltare – dice don Attilio –, e di essere in grado di stupirmi per ciò che avrò la fortuna di vivere. Spero, inoltre, di riuscire a trasmettere la mia idea di tempo alla comunità, in modo che ogni persona, riappropriandosi dei ritmi naturali del proprio essere, possa cogliere la bellezza della vita».

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