Un gruppo di 5 giovani teologi del nostro seminario ha vissuto un’esperienza di missione di tre settimane in Cambogia, dal 2 al 23 agosto. Abbiamo chiesto a don Tommaso Frigerio, loro vicerettore che li ha accompagnati, di raccontarci che cosa si riportano a casa dall’incontro con quella fede e quella terra.
La lampadina del viaggio in Cambogia per i seminaristi si accende qualche anno fa, da un incontro con un padre del Pime. L’idea che ci sta dietro è tanto semplice quanto sfidante: vivere un tempo in una missione di questo tipo significa provare a darsi la possibilità di uno sguardo diverso rispetto al futuro della nostra Chiesa in Italia. Nel senso che qui noi viviamo con una certa fatica questi anni di contrazione numerica e di minoranza per il cristianesimo. In Cambogia, la minoranza è la forma stabile della vita della Chiesa, ma questo non spegne l’entusiasmo del vangelo: su una popolazione di circa 16 milioni di abitanti, i cristiani sono 80 mila. Di questi, solo 20 mila sono cattolici.
Sbarcare in un mondo completamente diverso
La percezione iniziale è stata quella di sbarcare in un mondo completamente diverso. A livello di Chiesa, mancano tante cose della fede popolare: le santelle ai crocicchi delle strade, come il suono delle campane. La prima sensazione è stata di trovare un Paese a cui della religione cristiana importa poco. Ma i missionari del Pime – che ci hanno accolto, ospitato e accompagnato – sono stati molto preziosi nell’aiutarci a non giudicare frettolosamente, a leggere la storia del posto e a capire il senso della presenza missionari in questa terra.
La vicenda degli Khmer rossi, il genocidio iniziato nel 1975 che dà origine al cappio di una dominazione stringente fino agli anni Novanta e le condizioni di vita non sempre facili sono le ragioni di una storia della Chiesa che è ripartita solo una trentina d’anni fa. Una Chiesa giovanissima.
È stato toccante poter conoscere la storia di coloro che sono rimasti cristiani anche sotto la dominazione, nonostante la paura di rimetterci la vita. Sono rimasti fedeli, anche se non c’erano più preti per professare la fede e celebrare i sacramenti: hanno vissuto del rosario. Si sono infilati la coroncina al collo e hanno staccato la croce – perché mostrarsi in pubblico come cristiani significava andare contro l’ideologia comunista degli Khmer rossi e comportava la morte. La corona del rosario è bastata per tenere viva la loro fede. E la fede di un popolo: i vari missionari che abbiamo incontrato ci hanno portato dentro a queste piccolissime comunità cristiane, fatte da 80 persone al massimo, di cui solo 20 battezzati, altri in cammino di conversione e altri ancora di fede buddhista, semplicemente incuriositi dall’opera dei padri missionari, i quali vivono l’opera della carità, della vicinanza alla gente, della catechesi e delle scuole per dare a tutti una buona istruzione.
I campi di concentramento, segni di una storia difficile
Il nostro viaggio è stato molto semplice: nei primi giorni abbiamo fatto conoscenza della realtà e della storia di questo popolo di credenti, condividendo la loro vita. Siamo stati a vedere i campi di concentramento e le fosse comuni che hanno segnato il loro recente passato. Abbiamo partecipato ad alcuni momenti di festa, come i voti di una giovane cambogiana che è diventata suora salesiana. Abbiamo visto le rovine degli antichi templi di Angkor Wat.
Abbiamo girato le comunità e fatto animazione nelle scuole; poi, i pomeriggi siamo passati a portare un aiuto nei villaggi, alle famiglie più bisognose dei ragazzi, potendo vedere di persona l’esperienza di una povertà molto cruda, ma altrettanto dignitosa. Gli ultimi giorni abbiamo incontrato il Vescovo Olivier, delle Missioni Estere di Parigi: in vent’anni ha costruito scuole per circa duemila persone, ha fondato cooperative e avviato strutture sanitarie per disabili. Ci ha raccontato come queste iniziative continuano a sostenersi e a immaginarsi di fronte al futuro.
In complesso credo che l’esperienza sia stata estremamente significativa, proprio per i seminaristi in quanto giovani che si preparano a diventare preti per la nostra diocesi di Bergamo. In primo luogo perché ci ha permesso di guadagnare gratitudine rispetto all’essere cristiani: pur nella piccolezza e nella ristrettezza, abbiamo incontrato una Chiesa che sa dare fiducia ai semi della speranza e che sa raccontare i piccoli miracoli nascosti, quelli che illuminano la fede, come la testimonianza di quello sparuto gruppo di persone che, per anni, ha tenuto accesa la fedeltà al vangelo per un popolo intero.
La testimonianza di servizio dei missionari
Sono oggi gli animatori di alcune comunità che abbiamo visitato: spesso si tratta di qualche signora anziana, magari nemmeno troppo istruita. Ma che ci ha creduto realmente. In secondo luogo è stata un’esperienza importante per la testimonianza dei missionari, che in un contesto di minoranza sono capaci di esserci e di essere a servizio, anche quando non è entusiasmante: non sono tanto preoccupati di essere nel luogo che mette maggiormente a frutto le loro capacità personali e i loro talenti, ma di essere parte di una missione che ha a che fare l’essere disponibili al fatto che Dio realizzi la sua missione.
Quello è il campo in cui il Signore li ha messi, senza troppo badare che sia il terreno buono che rende il 30, il 60, o il 100 per ogni chicco seminato: potrebbe essere il terreno pieno di rovi, potrebbe essere la terra battuta, poco importa.
Ognuno è però consapevole che lì è chiamato a fidarsi della potenza del seme del vangelo. Queste due cose fanno particolarmente bene a tutti i credenti, in particolare a chi pensa alla vocazione al sacerdozio: aiuta a tenere fisso lo sguardo sul Signore e sul suo popolo, più che sulla propria realizzazione.