Le Olimpiadi di Parigi 2024 hanno svelato aspetti umani e personali in cui solo l’appuntamento a cinque cerchi consente di fare irruzione nel circo dello sport e delle prestazioni sportive. Le Olimpiadi sono medaglia, prestazione fisica, forza, abilità, gioco di squadra. “Citius, altius, fortius”, ovvero “più veloce, più in alto, più forte” disse Pierre de Coubertin – padre delle Olimpiadi moderne – facendo intendere quanto i Giochi fossero appunto una questione di prestazione sportiva così come la intendevano i greci, i quali davano gloria e onore solo al vincitore.
Più celebre tuttavia è diventato il suo altro motto: “L’importante non è vincere, ma partecipare”. Una filosofia ben diversa che apre una questione profonda, squarciata definitivamente durante l’ultima rassegna parigina: per uno sportivo, vincere una medaglia, è davvero tutto? Davvero bisogna per forza vincere per essere riconosciuti come sportivi di valore? Gli atleti italiani hanno lavorato molto a livello di comunicazione su questo aspetto. Celebre è diventata l’intervista alla nuotatrice Benedetta Pilato, che dopo essere arrivata quarta nei 100 metri rana – la sua gara – ha pianto di gioia dicendo che quello era il giorno più bello della sua vita. Sgomento, tra i media e il pubblico. “Ma veramente?!” è stata la reazione della giornalista Elisabetta Caporale. Condannata dall’opinione pubblica, sempre troppo irrazionale nelle reazioni. Perché quell’espressione così sorpresa non può non essere sorta ai più tra quelli che la stavano ascoltando. Come può un’atleta essere felice per un quarto posto quando partiva con i gradi di grande favorita? Eppure, scavando, si può vedere un percorso di sofferenza, caduta e risalita di Benedetta Pilato, anzi: Benedetta e basta, in quanto persona prima che sportiva.
Come lei anche “Gimbo” Tamberi ha dovuto praticamente rinunciare a gareggiare per la vittoria nel salto in alto che lo aveva visto trionfare tre anni prima a Tokyo. Colto da calcoli renali a pochi giorni dalla gara ha fatto di tutto per essere in pedana, ci è arrivato ma si è dovuto fermare subito. Eppure, è stato glorificato. Ma come? Ebbene, in una società e in una cultura molto italiana volta all’estremizzazione dello sport, della prestazione e del risultato, vincere sembra davvero l’unica cosa che conta. E a guardare al mero lato sportivo, non si può dare torto a questo modo di pensare. Se sei un’atleta la tua carriera non può prescindere dai risultati. Se questi non arrivano, qualcosa che è andato storto c’è. Forse atleti più forti, forse guai fisici, forse l’incapacità di reggere alle pressioni. Forse, semplicemente, un limite al talento.
Del resto, è come pretendere di celebrare uno studente che viene bocciato. Ma se ce l’avesse messa tutta? Il dibattito a questo punto si apre e si infittisce. Gli amanti dello sport si sono spesso innamorati di chi non è mai riuscito a vincere o di chi l’ha fatto raramente. Uno dei motti più belli che circola in questi anni tra i tifosi dell’Atalanta, ad esempio, è: “Ti amo anche se vinci”. Come dire: non è importante il risultato che ottieni, l’importante è restare uniti e che i protagonisti diano tutto per la maglia nerazzurra. Nella storia del ciclismo poi l’epica è piena di glorie per chi non ce l’ha mai fatta. Celebre, romantica, esaltante la storia di Raymond Poulidor, ciclista francese che ha corso negli anni ’70. Lui, ciclista di grande valore, non è mai riuscito a vincere il Tour de France, la corsa dei francesi, la più importante di tutte. Alla “Grand Boucle” è arrivato tre volte secondo e cinque volte terzo. E i tifosi di tutto il mondo se ne sono innamorati. Perché dava l’anima sulla strada, perché ci ha sempre provato, perché era simpatico, perché era un eroe tragico: epico, leggendario, emblema di sofferenza.
Che significa tutto ciò? Che i valori dello sport come la disciplina, il rigore, la volontà, il superare i limiti, i sacrifici, l’estro esaltano i tifosi e contraddistinguono un’atleta da un altro. La capacità di empatizzare con il pubblico è fondamentale: come se chi si siede sulle tribune di uno stadio o si piazza ai bordi di una strada debba vedere negli occhi quanto sia dura improntare buona parte della propria vita sullo sport. Che significa allenarsi ogni giorno, rinunciare, sacrificare, togliere, evitare, non fare; in cambio di cosa? Di qualche secondo posto e tanta fatica, la maggior parte delle volte.
Infine, però, non si può non considerare il risultato. Non tanto come epilogo di un’applicazione meticolosa, quanto come frutto di un talento. La celebre parabola dei talenti ci viene in aiuto: se Dio ha donato un talento al tal atleta, questi è chiamato a farlo fruttare vincendo una medaglia (per semplificare) altrimenti rischia di non rispondere alla chiamata. Per analogia, forse non ottenere risultati è sintomo che il talento non era stato donato in quantità tali da dedicare una vita ad una disciplina. C’è il merito e l’onore di averci provato con forza, disciplina, volontà e impegno, ma forse non era proprio quella la chiamata attesa.
Ciò che è determinante tuttavia, resta il fatto che nel giudicare le prestazioni sportive bisogna fermarsi a quelle. Spesso si rischia di sconfinare in giudizi personali e allora lì si crea il cortocircuito. Sia tra chi parla o scrive che tra gli atleti che ascoltano.