Bonhoeffer

Ho avuto il dono dell’amicizia con Paolo Giuntella, per anni “quirinalista” televisivo, volto noto della RAI, esponente di spicco del cattolicesimo democratico del nostro Paese. Un uomo libero, un credente appassionato, un testimone gioioso dell’Evangelo. Quando capitava di incontrarci, Paolo mi parlava con passione delle sue gioiose ossessioni. Certo quella della musica, «perché a credere sono rimasti solo i musicisti»: il jazz, il soul (era presidente dell’associazione “Meno lagne e più soul”), il gospel; le buone letture (ogni volta che ci incontravamo mi indicava una serie di titoli «assolutamente da leggere!»). Ma anche la convinzione che la fede – quella autentica – deve incrociare la storia, anzi, si feconda con la storia. Sempre. Non aveva mai dimenticato la lezione di Mounier: l’avvenimento sarà il tuo maestro interiore. I fatti della quotidianità e le persone in carne e ossa, perché «i pensatori si accorgeranno della fine del mondo un quarto d’ora dopo». Era orgoglioso di essere cresciuto alla scuola dei grandi francesi che consideravano la moderazione una bestemmia. Ogni volta insisteva nel dirmi che bisognava educare ad una storia della Chiesa fatta di biografie. Di uomini e donne che, sull’esempio dell’incarnazione di Gesù, hanno pagato di persona. Occorre dare ai ragazzi – mi ripeteva – un grande senso di appartenenza: noi apparteniamo ad un popolo che ha con sé una storia e dei grandi testimoni. Tra questi, quelli che lui amava: san Martino di Tours, san Massimiliano, i primi obiettori di coscienza, Francesco d’Assisi, fino ad arrivare a Dorothy Day, Franz Jagerstatter, Hans e Sophie Scholl, Martin Luther King, Thomas Merton, mons. Romero… «Siamo un popolo in cammino. Di uomini e donne in carne e ossa. Pieno di traditori e ubriaconi ma anche con questi grandi testimoni che sono nel cuore dell’avventura cristiana. Dobbiamo far crescere l’orgoglio che nasce da questo senso di parentela di uomini capaci di cercare il loro Dio dentro le pieghe della storia».

DIETRICH BONHOEFFER, UN CRISTIANO NEL MONDO

In questo popolo variegato trova senz’altro posto il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer di cui in questi giorni ricordiamo l’anniversario del martirio. Bonhoeffer fu impiccato, a trentanove anni, nel carcere di Tegel il 9 aprile del 1945 per aver partecipato all’organizzazione di un colpo di Stato e ad un complotto per eliminare Hitler, che lui chiamava non Füher (guida, in tedesco) ma Verführer (il seduttore). Sin dall’inizio dell’ascesa al potere dell’ “imbianchino austriaco” (cosi Moni Ovadia chiama Adolf Hitler) ebbe lucida consapevolezza delle conseguenze del diabolico abbraccio tra la Chiesa protestante e il regime nazista che prometteva di prendere «sotto la sua alta protezione il cristianesimo, fondamento della nostra comune morale». Dieci anni dopo la presa al potere di Hitler, Bonhoeffer tracciando per i suoi amici più cari un bilancio della resistenza scriverà: «La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo concettuale della nostra etica tradizionale, il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante; ma per il cristiano, che vive della Bibbia, è appunto la conferma della abissale malvagità del male».

UN’EREDITÀ ANCORA DA ACCOGLIERE

E’ difficile riassumere in poche righe l’eredità teologica di Bonhoeffer che ha segnato profondamente la stagione conciliare e post conciliare e il cammino di fede di tantissimi cristiani del nostro tempo. Alcuni abbozzi si possono però accennare, invitando il lettore a prendere in mano i testi del teologo tedesco (e tra questi, fondamentali, “Sequela”, “Vita comune”, “Etica” e le lettere dalla prigionia raccolte nel volume postumo dal titolo “Resistenza e resa”).

Anzitutto la consapevolezza che la fede non è mai qualcosa di altro dalla vita. La fede cristiana, se assunta nella verità profonda, obbliga a prendere sul serio la vicenda umana, a viverla in profondità. Cercare il cielo nella fedeltà alla terra. In una bellissima lettera alla fidanzata Maria scrive: «Il nostro matrimonio deve essere un sì alla terra di Dio, deve rafforzare in noi il coraggio di operare e di creare qualcosa sulla terra. Temo che i cristiani che osano stare sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in cielo…». Dunque, diventare uomini è la condizione per diventare cristiani perché «Gesù non ci chiama ad una nuova religione ma alla vita». Ed ancora: «Gesù è l’uomo reale. E ci vuole tali. Lascia sussistere la realtà umana come realtà penultima, senza renderla autonoma e senza distruggerla. Le realtà penultime vanno preso sul serio, al loro livello… Esse velano, per cosi dire, le realtà ultime».

Inoltre l’obbligo, per la Chiesa di riscoprire nell’obbedienza a Dio e nella sequela a Cristo («Solo nella sequela la chiesa è Chiesa!») la «grazia a caro prezzo” e per la teologia di non essere astratta, di non finire nei salotti delle chiacchiere su Dio. Essa è, inevitabilmente, un discorso radicalmente situato, ovvero per il quale spazio e tempo non sono indifferenti, ma diventano al contrario “luogo teologico”. “Teologia militante”, l’ha chiamata recentemente Paolo Ricca in un bell’articolo pubblicato da Avvenire. In questa prospettiva, per Bonhoeffer, il futuro della Chiesa ha senso solo se profondamente raccordato e premuroso verso il futuro del mondo. Non si può dare una salvezza della Chiesa e delle sue istituzioni, senza una salvezza del mondo, senza una cura da parte della Chiesa per ciò che avviene nel mondo. Solo in questa direzione, la Chiesa può avere futuro, le religioni possono avere futuro: se diventano attente alle vicende della società degli uomini, della polis. E Bonhoeffer è uno dei primi casi seri di una connessione esistenziale tra fede e vissuto politico. Non come due spicchi della vita distanti, bensì come due polmoni che interagiscono.

MONDO ADULTO

Infine, tra le altre molte intuizioni da sviluppare, credo decisiva la sua lucida premonizione di un mondo prossimo a diventare “adulto” dove si rende necessaria una reinterpretazione non religiosa delle nozioni bibliche. Un mondo dove la questione stessa di Dio è divenuta irrilevante per la maggior parte degli uomini. E anche quelli che si dichiarano credenti sono lontani dal mettere in pratica la loro fede nel quotidiano: si volgono a Dio solo nel momento della prova e nel caso in cui la scienza confessi di essere ancora impotente. E’ il “Dio tappabuchi”, al quale ci si rivolge solo nel momento in cui le conoscenze umane si scontrano con i limiti personali. Quando queste saranno progredite a sufficienza, il riferimento a Dio dovrebbe ridursi fino a scomparire. In una lettera dal carcere di Tegel, nell’aprile del 1944 scrive: «Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. La fede nella resurrezione non è la “soluzione” del problema della morte. L’“aldilà” di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza! La trascendenza gnoseologica non ha nulla che fare con la trascendenza di Dio. È al centro della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio. Così stanno le cose secondo l’Antico Testamento, e noi leggiamo il Nuovo Testamento ancora troppo poco a partire dall’Antico. Attualmente sto riflettendo molto su quale aspetto abbia questo cristianesimo non-religioso, e quale forma esso assuma; te ne scriverò presto ancora e più a lungo».

I nazisti hanno impedito a Bonhoeffer di dare forma compiuta alla sua ricerca. Eppure le sue domande restano intatte. Più pertinenti e urgenti di quando, settant’anni fa, sono state poste.